Società anonima Supertessile di Rieti

Nel 1928 viene inaugurato, a Rieti, lo stabilimento “Società anonima Supertessile”. Proprio davanti esisteva già un’altra importantissima realtà industriale per il territorio reatino: lo zuccherificio (primo in Italia) fondato nel 1873 dall’ing. Emilio Maraini. L’area industriale viene completata nel 1937 dalla costruzione dello stabilimento Montecatini per la produzione dell’acido solforico, materia prima fondamentale per la produzione dei filati artificiali.

Lo stabilimento Montecatini realizzato nel 1937 accanto alla Supertessile per produrre l’acido solforico indispensabile per la produzione della viscosa

Lo stabilimento della Supertessile è fortemente voluto dall’amministrazione della cittadina allo scopo di creare sviluppo e posti di lavoro. Per questo viene contattato il barone Alberto Fassini, fondatore a Padova della Cines Seta Artificiale e successivamente fondatore, insieme a Franco Marinotti, della CISA Viscosa. Anche il principe Potenziani, di origine reatina e in quel periodo importante gerarca fascista, si adopera per convincere il Fassini a scegliere proprio Rieti per lo stabilimento. Alla società vengono garantiti molti benefici, in termini fiscali e logistici (uso gratuito delle acque, esenzione da dazi, etc.), per facilitarne l’insediamento e lo sviluppo.

Una commovente richiesta di riassunzione di un’operaia licenziata, segnata da un perentorio “NO” – 1931

La progettazione dello stabilimento è affidata all’ingegnere Arturo Hoerner, storico collaboratore del barone Fassini (sua la progettazione di altri edifici industriali per lo stesso committente nonché di villa Fassini a Roma) e vede l’utilizzo sapiente di eleganti strutture in cemento armato per i giganteschi capannoni a shed. L’edificio più iconico di tutto il complesso è senz’altro la torre quadrata che ospita gli uffici, sormontata da un enorme serbatoio idrico circolare.

Uno dei tanti progetti impianti originali del 1928

E’ interessante notare come il complesso industriale non fosse dotato in origine di impianto estrazione fumi chimici e pulizia/climatizzazione dell’aria, come invece sarà fatto in futuro in più recenti stabilimenti della SNIA Viscosa (ad esempio Varedo e Castellaccio) dove tali impianti sono ben integrati nelle opere strutturali: a Varedo la più grande delle ciminiere, quella con le nervature, è proprio deputata a tale scopo. Tale impianto viene aggiunto a Rieti solo successivamente (si tratta della ciminiera in ferro e vetroresina tutt’ora presente) ed è ben visibile la sua estraneità strutturale rispetto al resto della fabbrica: la salubrità dell’ambiente di lavoro, negli anni ‘20, non era certo una priorità e l’avvelenamento da solfuro di carbonio era molto frequente tra le maestranze.

All’ingresso dello stabilimento è presente il capannone-parcheggio per le biciclette degli operai

 

I ganci per appendere le biciclette

L’uscita degli operai, tutti in bicicletta, in una cartolina d’epoca

L’edificio della portineria è ornato da un rivestimento in legno con il simbolo degli Anelli di Borromeo e le iniziali della SNIA Viscosa

Nel 1929, prima della grande crisi economica, la Supertessile dà lavoro a oltre 2300 persone e attorno allo stabilimento l’azienda costruisce un vero e proprio villaggio industriale con gli alloggi per operai e impiegati. Le palazzine per gli operai sono quelle a due piani ancora esistenti lungo via Cicchetti e via Piselli mentre le ville per i funzionari affacciano a semicerchio su piazza XXIII Settembre.

Il cartellino di un’operaia a cui, dall’aprile 1931 al dicembre del 1933, vengono comminate ben 38 punizioni per assenze ingiustificate, cancellazioni del cartellino, “matasse rotte”, indisciplina e scarso rendimento. Nata nel 1919 e assunta nel 1931: una bimba dodicenne.

All’epoca la città di Rieti non offre, ovviamente, mano d’opera specializzata e in tale gran quantità, quindi l’azienda recluta moltissime lavoratrici dal Veneto. Pare che il reclutamento fosse affidato alle parrocchie venete che avrebbero operato la selezione in base a criteri di “moralità”.
Per garantire assistenza e servizi a questa mole di persone lontana dai propri luoghi natii, si affida la gestione del “welfare” aziendale, del dopolavoro e degli alloggi alla ONARMO (Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale agli Operai).

Vari documenti che riportano le variazioni storiche di ragione sociale

Durante la seconda guerra mondiale l’area industriale subisce pesanti danni a seguito dei bombardamenti (in particolare lo zuccherificio che venne quasi raso al suolo) e nel dopoguerra la SNIA Viscosa investe molto per ammodernare lo stabilimento, senza ancora preoccuparsi, però, delle condizioni di salute degli operai che erano a diretto contatto con sostanze chimiche estremamente tossiche.

L’azienda comunica a un operaio che potrà sospendere il pagamento della pigione per l’alloggio aziendale, reso inagibile dai bombardamenti del 1944

Alla fine degli anni ‘70 la crisi petrolifera rende non più competitivo lo stabilimento di Rieti che chiude nel 1979. Per tentarne il rilancio si punta allora sull’innovazione tecnologica e SNIA Fibre installa a Rieti le FCT3000 per la filatura continua della viscosa (proprio brevetto) che sono pienamente operative a partire dal 1987 permettendo la riapertura dello stabilimento. Le linee FCT3000 sono tra l’altro gli ultimi macchinari ancora parzialmente presenti nello stabilimento abbandonato.
Il vantaggio della produzione con le FCT3000 è l’accorpamento di più fasi in un unico processo continuo che porta, tra l’altro, alla possibilità di captare i fumi chimici: viene finalmente realizzato l’impianto estrazione fumi tuttora visibile, che garantisce un ambiente di lavoro più salubre.

L’archivio con documenti, progetti e schede del personale che è stato fortunatamente salvato dall’Archivio di Stato di Rieti nel 2015

Nel 2004 avviene la fusione tra Novaceta, Bemberg e Nuova Rayon e lo stabilimento di Rieti è ormai specializzato nella produzione della viscosa a filo continuo che comporta, però, un utilizzo enorme di energia. Proprio il costo dell’energia, con un debito di 6 milioni di Euro con la sola Enelgas, porta alla chiusura definitiva dello stabilimento nel 2006.


Foto storiche (archivio CID Torviscosa)


Altre foto storiche


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Riferimenti in rete


Bibliografia

  • Architetture industriali dismesse (Paolo Cavallari, Edoardo Currà – Edicom Edizioni 2014)
  • Aree industriali dismesse e città storica: Rieti, laboratorio di sinergie sostenibili (Edoardo Currà, Lorenzio Diana, Emanuele Habib – in_bo n.5 dicembre 2012)
  • “Una città e la sua fabbrica: la storia della Snia-Viscosa a Rieti” – Tesi per il Master in innovazione e impresa di Annamaria Di Gregorio

Cineteatro Gerini

Nel 1952 il Marchese Alessandro Gerini, uno degli uomini più ricchi d’Italia, detto “il costruttore di Dio”,  dona ai salesiani un terreno adiacente alla via Tiburtina, perché vi sia realizzato un polo educativo e assistenziale per i giovani: orfanotrofio, oratorio, scuola professionale, impianti sportivi, etc. Il centro dovrà essere dedicato alla memoria di sua madre, la Marchesa Teresa Gerini Torlonia.
Nel 1953 viene rilasciata la concessione edilizia per realizzare un teatro da 1500 posti, uno stadio con palestra coperta, altre infrastrutture sportive, un oratorio con chiesa e una scuola professionale.
Il complesso viene ultimato e inaugurato nel 1957, come riportato nel Bollettino Salesiano n. 23 del 1°dicembre 1957.

L’articolo del “Bollettino Salesiano” del 1957 in cui si parla dell’inaugurazione del Gerini

Questa la descrizione del complesso, nel citato articolo del “Bollettino Salesiano”:

Il grande Istituto sorge alla periferia dell’Urbe nella borgata di Ponte Mammolo e sembra materialmente e idealmente collegato con l’anello delle Opere Salesiane che in questi ultimi anni, venendo incontro alle pastorali ansie del Sommo Pontefice Pio XII, sono fiorite nei nuovi quartieri periferici della, città.
Quasi a rendere socialmente più moderna ed efficace la sua azione, l’Opera Salesiana è stata innalzata in quella parte della città che sta diventando la zona industriale di Roma, nel centro di un futuro quartiere popolare ai margini degli stabilimenti. La Parrocchia, già affidata ai Salesiani, svolgerà l’assistenza spirituale della popolazione, col vantaggio di precedere il completo sviluppo delle abitazioni civili.
L’Oratorio si rivolgerà in modo speciale ai giovani, per la loro educazione morale e per un sano divertimento, mirando a creare delle nuove generazioni capaci di dare un volto spiccatamente cristiano a tutto il sobborgo.
A questo fine dispone di vastissimi campì sportivi, di un ampio teatro modernamente attrezzato, di cortili interni con lunghi porticati, di eleganti sale da gioco e di lettura, di saloni per riunioni, di numerose aule per la istruzione religiosa e di una luminosa ed accogliente Cappella.
Le Scuole Professionali per alunni esterni, dotate degli ultimi ritrovati del progresso, prepareranno tecnicamente i futuri operai, che potranno trovare facile assorbimento di lavoro nell’industria.
È un’Opera nel suo genere completa, in piena risonanza con l’ambiente, destinata a diventare centro di vita per decine di migliaia di persone, punto di irradiamento per l’affermazione dei più alti valori spirituali nel mondo del lavoro e della tecnica.
Alcune cifre daranno un’idea della eccezionale grandiosità dell’Opera.
Il fronte del vasto complesso si estende per circa mezzo chilometro sulla via Tiburtina. La superficie è di 120.000 metri quadrati (la Città Universitaria di Roma ne occupa circa 160 .000).
Il volume è di 252.000 metri cubi (una scuola di 50.000 metri cubi è normalmente considerata molto grande). L’Opera viene a costare complessivamente oltre tre miliardi. Due miliardi per i tredici padiglioni. Un miliardo per macchine, attrezzature tecnico-scientifiche e arredamento. È escluso il valore del terreno e della erigenda chiesa parrocchiale.
«E tutto questo – scrive L’Osservatore Romano – non è fatto per i signori, come la facile demagogia va bofonchiando quando deve demolire; ma è fatto per l’umile gente che non è più abbandonata, nè si vuole incantare di chiacchiere e di sogni; è fatto per l’umile gente cui bisogna comunicare un senso decoroso di dignità, di proprietà, di amore per le cose».
Per dare un’idea più completa, dell’Opera, aggiungiamo che le Scuole Professionali potranno accogliere oltre 1200 allievi esterni, con otto edifici collegati da portici, attorno a tre ampi cortili, di cui il maggiore misura 8300 metri quadrati. La Scuola comprende i tre Laboratori di Meccanica, Elettromeccanica, Elettronica, dotati di uffici tecnici, sale di prova, magazzini e sale macchine, uniche per vastità e modernità d’impianti.
La maggiore, quella di meccanica, misura 5000 metri quadrati. Vi sono inoltre 36 aule per l’insegnamento teorico, sale di studio per doposcuola, refettori, sale per mostre professionali, ecc.
L’Oratorio, per oltre 2000 giovani, comprende una grande Cappella propria – un gioiello di
eleganza e modernità; – 16 aule per catechismo e ricreazione interna; 2 saloni per riunioni ; stadio con due gruppi di tribune, due campi regolari di calcio, campi da tennis, pallacanestro, pallavolo, piste per corse, atletica e pattinaggio ; palestra coperta fornita di tutti gli attrezzi ; cine-teatro per 1500 posti, impianto sonoro e cinemascope, palcoscenico a piani elevabili e impianto ad aria condizionata .
La chiesa parrocchiale (erigenda) sarà dedicata a San Domenico Savio e avrà un volume di 25.000 metri cubi.
Così nel nome di Don Bosco, il Santo che scese tra i primi nella periferia di una città moderna per preparare le giovani generazioni ai compiti della nostra civiltà, sorge in Roma quest’opera di eccezionale portala, in armonia con quel programma nel quale Egli seppe conciliare da oltre cento anni le esigenze della fede e del lavoro.
In questa felice realizzazione si sono incontrati un unto, che confidava solo e sempre nella Provvidenza, e un Benefattore che – munifico ministro della Provvidenza – ha posto i suoi beni nelle mani di Don Bosco, nel comune amore per i figli del nostro popolo. E non fu meno provvido disegno di Dio l’aver messo al fianco del Marchese Gerini, per l’attuazione del vasto disegno, un Uomo dalle larghe vedute, l’ultimo Superiore del Capitolo Salesiano educato nell’Oratorio di Torino, vivente ancora Don Bosco: l’Economo Generale Don Fedele Giraudi.

Vista aerea deli’Istituto Gerini presa dal Bollettino Salesiano del 1957. In giallo il teatro, in rosso la parte interamente demolita (oratorio, chiesa e impianti sportivi)

L’Istituto Gerini in una foto aerea d’epoca

L’istituto visto sul lato della via Tiburtina. L’edificio con il tetto curvo è il teatro. La parte alla sua destra è quella che è stata demolita.

Nel 1978 nell’area si insedia anche la Residenza dei Salesiani, per ospitare gli studenti di teologia che sarà poi chiusa nel 2000 a causa della mancanza di vocazioni.

Nel 2003 i salesiani vendono una cospicua parte dell’Istituto ad una società privata: l’area ceduta è quella relativa all’oratorio, al teatro e agli impianti sportivi. Tale vendita causerà un’azione legale da parte degli eredi Gerini che accuseranno i salesiani di aver snaturato gli scopi della donazione originale: la richiesta di indennizzo non sarà però riconosciuta dal tribunale.

Nel 2006 una grande mobilitazione di personaggi dello spettacolo cerca di impedire la demolizione degli edifici al posto dei quali si intende costruire degli esercizi commerciali.
Nel 2007 gli edifici, e il teatro, vengono occupati dai comitati sorti per la loro difesa. In teatro vengono organizzati numerosi eventi culturali di spessore, tutti a titolo completamente gratuito.
Nel 2008 la proprietà inizia la demolizione dello stadio e delle altre strutture sportive.

L’area prima della demolizione (il teatro è evidenziato in giallo)

La situazione attuale (2020). Il teatro è evidenziato in giallo e alla sua destra sono visibili i capannoni commerciali

Nel 2009 la proprietà si impegna a non demolire il teatro e a cederlo a titolo gratuito al Comune di Roma, cosa che avviene con l’accettazione del Comune nel 2013.
Ad oggi il teatro è chiuso e non utilizzato mentre nell’area demolita dell’oratorio e dei campi sportivi sono stati realizzati due capannoni destinati al commercio al dettaglio di generi alimentari e detersivi.


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Centrale Elettrica Santa Caterina

La centrale di Santa Caterina si trova in Sardegna, nell’area del Sulcis, e rappresenta uno dei simboli dell’industrializzazione sarda. Entrata in funzione nel 1939, è rimasta attiva fino al 1963 per poi chiudere definitivamente nel 1965.

Dobbiamo la sua nascita all’ingegner Angelo Omodeo che nel 1911 fonda la Società Elettrica Sarda. e nel 1913 la Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso che si occuperà delle opere idrauliche su Tirso e Coghinas. Scopo delle aziende, sviluppare la produzione di energia elettrica per lo sviluppo industriale e sociale dell’isola.

L’avviamento del Bacino carbonifero del Sulcis, la costruzione di Carbonia, il potenziamento del porto di Sant’Antioco, suggerirono alla Società Mineraria Carbonifera Sarda la realizzazione di una grande centrale termica a bocca di miniera. Nel 1939 veniva inaugurata la moderna Centrale Termoelettrica di Santa Caterina, la prima in Italia idonea a utilizzare il carbone del Sulcis polverizzato. L’impianto fu realizzato nella frazione di Palmas Suergiu, all’imboccatura dell’istmo che collega l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna.

Il fabbricato fu edificato in riva al mare per poter prelevare l’acqua necessaria al suo funzionamento. Si componeva di quattro corpi di fabbrica contenenti rispettivamente i generatori di vapore, i distillatori dell’acqua marina con le pompe di alimentazione, i turbo-alternatori, i quadri da 5 KV. I generatori di vapore, realizzati dalla ditta Gefia, utilizzanti il carbone Sulcis polverizzato, erano del tipo a irradiazione totale, a unico passaggio di gas verso l’alto, capaci di produrre 500 chilogrammi all’ora di vapore. Nella sala macchine erano installati quattro gruppi turbo-alternatori più quello per i servizi ausiliari eroganti una potenza complessiva di 40.320 Kw. Due gruppi, oltre a quello dei servizi ausiliari, erano stati forniti dalla Stal, gli altri due dalle Ditte Tosi-Brown Boveri. L’apparecchiatura elettrica a 5 KV era installata in un apposito fabbricato quadri. Qui erano attrezzati i pannelli di controllo per la manovra, la regolazione delle macchine e la misura delle varie grandezze elettriche. La sala ospitava inoltre un centralino telefonico automatico con 14 posti di chiamata e ricezione. L’apparecchiatura elettrica a 70 KV, compresi i 3 trasformatori 5/70 KV, era invece sistemata all’aperto. L’alimentazione del carbone avveniva mediante un sistema di rotaie su cui scorrevano i carri tramoggia che convogliavano il minerale a due mulini atti alla sua macinazione.

La centrale entrò in esercizio nel 1939. Negli anni della seconda guerra mondiale assicurò la vitale fornitura elettrica non solo al complesso industriale del bacino carbonifero ma anche all’area metropolitana di Cagliari attraverso un articolato collegamento in rete. Durante la seconda guerra mondiale nell’area della centrale furono dislocate alcune armi automatiche destinate alla difesa contraerea. Nell’area della centrale è tuttora presente un fortilizio a “S” in calcestruzzo. Alla data del 1° gennaio 1943 vi era schierata la 843ª Batteria con 4 mitragliatrici pesanti Breda da 20 mm, armate dal personale appartenente alla 17ª Legione DICAT Carbonia. Durante l’armistizio, nel settembre del 1943, i Tedeschi in ritirata asportarono il 4° gruppo, poi parzialmente recuperato in Germania al termine del conflitto e rimesso successivamente in opera. Una quinta caldaia fu attrezzata dopo il 1950 in virtù degli aiuti statunitensi del Piano Marshall. La centrale cessò il servizio nel 1963 chiudendo definitivamente nel 1965.


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SNIA Viscosa – Stabilimento di Varedo

Il 10 luglio 1917 viene fondata dall’avvocato Riccardo Gualino, a Torino, la società SNIA (Società di Navigazione Italo Americana) con un capitale sociale di lire 5 milioni. Socio di Gualino è Giovanni Agnelli, il fondatore della FIAT. La società si occupa di trasporto marittimo tra Italia e Stati Uniti ma, alla fine del primo conflitto mondiale, si trova di colpo circondata da concorrenti agguerriti che sfruttano i molti mezzi navali non più utilizzati per lo sforzo bellico. Inizia così la differenziazione del business interessandosi alle fibre artificiali e nel 1920 cambia denominazione in “SNIA – Società di Navigazione Industria e Commercio”.

La sede della SNIA a Milano: la Torre San Babila costruita nel 1937 dall’architetto Alessandro Rimini

E’ del 1920 l’acquisizione della “Società Anonima Viscosa di Pavia” dalla “Cines-Seta Artificiale” e della “Società Anonima Unione Italiana Fabbriche Viscosa” – che aveva uno stabilimento a Venaria Reale – mentre, nel 1921, viene acquisita la “Società Italiana Seta Artificiale” che aveva il suo stabilimento a Cesano Maderno. Il passaggio definitivo alla produzione di fibre tessili viene sancito dalla successiva modifica della ragione sociale, avvenuta il 6 novembre 1922, in “SNIA Viscosa – Società Nazionale Industria Applicazioni Viscosa”.

Gli uomini della SNIA. Dall’alto: Riccardo Gualino, Senatore Borletti, Franco Marinotti e Luigi Crosti

Nel 1925 si inizia la costruzione del secondo stabilimento a Torino, in località Abbadia di Stura e, sempre in quell’anno, il capitale sociale della SNIA arriva a un miliardo di lire. Mai nessuna azienda italiana era arrivata a tale volume.

Nel frattempo i rapporti tra Giovanni Agnelli e Riccardo Gualino vanno deteriorandosi soprattutto a causa del diverso temperamento dei due (Agnelli molto misurato e attento agli investimenti, Gualino impetuoso e talvolta avventato), portando alla separazione tra i due: Agnelli lascerà la SNIA nel 1926 e Gualino la FIAT nel 1927.

Nel 1927 viene acquisita al 100% la proprietà del “Gruppo Seta Artificiale Varedo” (fondato nel 1922 da SNIA in joint venture con la britannica Courtaulds) e quindi il pieno controllo degli stabilimenti di Varedo e Magenta. Sempre in questo periodo vengono incorporate per fusione la “Unione Italiana Fabbriche Viscosa” e la “Società Italiana Seta Artificiale”.

Impianti dello stabilimento SNIA di Varedo

La produzione annua di raion passa gradualmente dai 500mila kg. del 1920 ai 9 milioni e 500mila kg. del 1929.

La crisi economica del ‘29 mette in difficoltà tutti i grandi competitor internazionali che operano nel settore delle fibre artificiali: la già citata Courtaulds (inglese), la Glanzstoff (boema), il Comptoir des Textiles Artificiels (francese) e, appunto, la SNIA. Tali difficoltà economiche portano all’uscita di scena del Gualino, proprio nel 1929, sostituito da Senatore Borletti. La figura di Riccardo Gualino era inoltre invisa al regime fascista in quanto non ne aveva mai sposato la dottrina e, al contrario, era persona molto vicina a mondi “non allineati” quali quello dell’arte, del teatro e della cultura in genere. Infine il crack della Banca Agricola Italiana, di cui Gualino era principale azionista, fu il colpo di grazia che costrinse l’imprenditore a disimpegnarsi dalla SNIA.

Uno di locali dell’asilo per i figli dei dipendenti, interno alla fabbrica, nel raffronto tra quando era in uso (foto archivio CID Torviscosa) e nel 2015

Nel 1937, in pieno regime fascista, Franco Marinotti (già A.D. dal 1934) diventa presidente della SNIA e il 31 gennaio 1938 fonda la S.A.I.C.I. “Società Anonima Agricola Industriale per la produzione italiana di cellulosa” che trasforma una zona paludosa in località Torre di Zuino (UD) in una città-industria modello, cui viene dato il nome di Torviscosa. La possibilità di utilizzare le canne che crescono nella zona per la produzione della cellulosa tessile soddisfa infatti, oltre che gli utili della SNIA, la necessità della propaganda di regime di celebrare autarchia e indipendenza dalle fonti estere di materie prime. Di tale città-industria si occuperà anche Michelangelo Antonioni che realizzerà, nel 1948 su commissione della SNIA, il documentario “Sette canne un vestito”.
Sempre durante il periodo dell’autarchia fascista la SNIA mette a punto e rende industrialmente profittevole il processo, inventato da Antonio Ferretti, con cui si ottiene dalla caseina il Lanital, materiale sintetico con caratteristiche molto simili alla lana.
Fino al 1931 le fibre sintetiche erano rappresentate praticamente solo dal raion, che è un filo continuo e la grande scommessa di Marinotti è l’investimento di grandi risorse per la produzione del fiocco viscosa, di cui intuisce le potenzialità: una fibra corta che può essere usata da sola o in mescola con altre naturali (cotone e lana). La scommessa è vinta e nel 1934 la SNIA arriva a coprire il 60% della produzione mondiale di fibre sintetiche corte con il suo SNIA-fiocco, superando in questa produzione il colosso chimico tedesco IG Farben.

Oltre alla SNIA, in Italia, un player di tutto rilievo nel campo delle fibre artificiali è la “Cisa Viscosa” di Pavia (nata dalla Cines che produceva pellicole cinematografiche col procedimento della nitrocellulosa), che ha impianti anche a Padova, Roma, Rieti e Napoli. Nel 1939 la SNIA acquisisce il controllo della CISA Viscosa e, per ottimizzare la commercializzazione dei prodotti, si allea con la valdostana Châtillon creando la ”Italviscosa”.

Il gruppo SNIA esce dal secondo conflitto mondiale con gli stabilimenti pesantemente danneggiati e l’opera di ricostruzione è ingente. Nel frattempo la produzione del fiocco si specializza e raffina sempre di più, arrivando a comprendere fiocco ad alta resistenza (da cui deriverà il koplon, fibra polinosica) e fiocco tinto in pasta. Nel 1951 una nuova joint venture con la Courtaulds porta alla conversione dello stabilimento di Magenta alla produzione del raion all’acetato, con la denominazione di “Novaceta”.
E’ infatti del dopoguerra l’impegno sempre più forte della SNIA per lo studio e la produzione di fibre interamente sintetiche. La maggiore di queste è il “lilion”, fibra poliammidica simile al nylon.

Nel 1966 muore Franco Marinotti, padre storico della SNIA, e il suo posto viene assegnato a all’Ingegner Luigi Crosti che era in SNIA, come anima tecnica, dal 1919.

Nel 1968 la SNIA incorpora la società BPD “Bombrini Parodi-Delfino” che, storicamente, si occupa di chimica degli esplosivi (è praticamente l’anima fondante della città di Colleferro, nata attorno a questa azienda e progettata in gran parte da Riccardo Morandi) ma che ha iniziato da tempo anche produzioni tessili e meccaniche negli stabilimenti della citata Colleferro, di Castellaccio di Paliano e di Ceccano.

Il Gruppo SNIA Viscosa nel 1970

Dagli anni ‘70 in poi inizia il lento declino della SNIA, parallelo al declino di tutta la chimica italiana. Nel 1974 viene acquistata dalla Montedison e nel 1980 passa alla FIAT (ora si chiama SNIA BPD). Nel 1998 viene venduta dalla FIAT. Nel 2003 la parte economicamente ancora profittevole di quel che resta della SNIA, il biomedicale, viene scissa dando vita alla SORIN. Anche questa è di breve durata e chiude pochi anni dopo, lasciando uno strascico giudiziario ancora in corso poiché i giudici di Milano sospettano distrazioni di capitale dalla SNIA alla SORIN.
La SNIA S.p.A. termina tecnicamente la propria gloriosa storia il 16 aprile del 2010 quando viene posta in amministrazione straordinaria dal Tribunale di Milano che ne dichiara l’insolvenza.

Per quanto riguarda, nello specifico, lo stabilimento di Varedo, questo cessa la produzione della viscosa nel 1982 e del lilion nel 2003, data della definitiva chiusura. Da allora versa in stato di abbandono.


Foto storiche archivio CID di Torviscosa*

*Le foto di questa galleria provengono dall’archivio on-line del Centro Informazione Documentazione (CID) del Comune di Torviscosa. Sono tutte opera dello Studio Crimella, probabilmente scattate da Vincenzo Aragozzini, particolarmente attivo per la committenza SNIA. Desideriamo ringraziare sentitamente il Sindaco Dr. Fasan per la cortesia e la disponibilità.


Foto storiche


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Riferimenti in rete


Bibliografia

  • Gruppo SNIA Viscosa – Ed. SNIA Viscosa – 1949
  • Mezzo secolo di SNIA Viscosa – Ed. SNIA Viscosa – 1970
  • Torviscosa – La città della cellulosa – Ed. SNIA Viscosa – 1941
  • Tecnologia delle fibre artificiali e sintetiche – Vol. 1 – Rayon e fiocco viscosa – Ed. Hoepli – Bruno Scarabelli 1958
  • Tecnologia delle fibre artificiali e sintetiche – Vol. 2 – Filo cupro Raion e fiocco acetato Fibre sintetiche – Ed. Hoepli – Fernando Scarabelli, 1967
  • Le fibre tessili artificiali in Italia dai primi del novecento alla seconda guerra mondiale – Università degli Studi di Pisa – Corso di dottorato in Storia Economica – Dott.ssa Marcella Spadoni, 2000

Istituto del Sacro Cuore di Collecchio

L’istituto del Sacro Cuore di Collecchio fu eretto a partire dal 1900 per provvedere all’istruzione e all’educazione delle adolescenti. L’edifico fu progettato dall’ing. Carlo Pelleri.
L’inaugurazione avvenne nel 1902 con un la partecipazione di numerose bambine. Nell’oratorio, oltre alle attività di svago e di preghiera, si imparava il ricamo ed il cucito. Successivamente furono aperte le classi di 4a e 5a elementare che non erano ancora presenti nella scuola comunale del paese.

Nel 1904 fu costruito un teatrino di stile Liberty dedicato a rappresentazioni teatrali e serate di festa e musica aperte al pubblico.

Molto importanti, nel processo di emancipa­zione femminile, risultarono il laboratorio di cucito e ricamo e l’attività filodrammatica.

Nel 1908 fu inaugurata la chiesa del Sacro Cuore eretta alla sinistra del primo fabbricato.

All’entrata in guerra dell’Italia, nel primo conflitto mondiale, presso il col­legio venne istituito un asilo per i figli dei richiamati alle armi onde permettere alle mogli dei combattenti di lavorare; l’asilo venne gestito dalle stesse suore Orsoline.

Successivamente il collegio venne requisito dalle autorità militari per installarvi un ospedale militare per la degenza e la convalescenza dei malati di malaria. Dopo le proteste della madri per la chiusura dell’asilo, quest’ultimo e l’oratorio furono spostati nell’edificio scolastico in paese.
Nell’estate del 1918 scoppiò l’epidemia influenzale detta “spagnola”. L’ospedale militare accolse 250 soldati ammalati che contribuirono a dif­fondere il morbo anche in paese. Tra l’agosto di quell”anno  e i primi mesi del 1919 morirono 16 militari e 83 abitanti del Comune.

Alla fine del 1918 l’Ospedale militare e l’asilo per i figli dei richiamati furono chiusi cosicché le Orsoline poterono rientrare al Sacro Cuore e le scolaresche nell’edificio in paese.

Nel primo dopoguerra fu creata, su iniziativa della madre superiore del collegio, la “Cooperativa dell’ago” che arrivò a contare 30 lavoratrici e una ventina di apprendiste e che rimase in attività fino agli anni Cinquanta.

Nel 1930, stante la politica del Partito Nazionale che sottrasse tutti i giovani a qualsiasi tipo di aggregazione festiva o post­scolastica, il collegio venne requisito alle suore Orsoline e trasformato inizialmente in un convitto maschile e femminile e in seguito solo femminile denominato “Isti­tuto Infanzia abbandonata”. Gli ospiti sono tutti orfani o figli di coppie in difficile situazione economica o anche residenti in zone montane disagiate dove risulta problematico frequentare le scuole.

Tra il 1943 e il 1945 le scuole ven­gono trasferite nel collegio del Sacro Cuore poiché l’edificio sco­lastico del paese che le ospitava era occupato dalle truppe italo-tedesche.

Durante il pesante bombardamento alleato del 7 luglio 1944, l’immobile, anche se non colpito in modo diretto, rimase comunque pesantemente danneggiato diventando parzialmente inagibile.

Nel dopoguerra l’Istituto riprese la sua attività. Le alunne ospitate erano accompa­gnate ogni mattina alle scuole elementari e medie del paese. In accordo con la parrocchia e con le associazioni giovanili cattoliche, il teatri­no venne spesso utilizzato per incontri e feste tradizionali.

Dopo il 1960 si tentò di mantenere in vita l’Istituto eliminando la denominazione ormai incongrua di “Infanzia abbandonata”, ma con scarsi risultati; la chiusura avvenne nel 1979 con il richiamo a Piacenza delle suore rimaste.

Nel 2009 iniziarono i lavori di radicale ristrutturazione dei fabbricati ed attualmente al posto dell’Istituto sono sorti degli edifici residenziali. L’oratorio è stato ristrutturato in attesa di una sua destinazione.

Le informazioni storiche sono state ricavate dal libro “L’Istituto del Sacro Cuore a Collecchio” recensito qui

 

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Cartiera Vita-Mayer di Cairate

Risalgono al 1750 le prime notizie storiche di un opificio che, sulla sponda dell’Olona, si occupa della follatura degli stracci e della parziale lavorazione della carta.

Nel 1897 la famiglia Vita acquista la piccola fabbrica e fonda la “Cartiera Enrico Vita & Co”, rinnovando profondamente il ciclo industriale ed ampliando la fabbrica.

Nel 1904 Matilde Vita sposa Sally Mayer e nel 1906 nasce la “Vita Mayer & Co.”.

Nel 1916 viene attivato il tratto ferroviario Cairate-Valmorea della ferrovia Valmorea e la cartiera ha una facile ed efficiente via di comunicazione per le materie prime e i prodotti finiti.

Dopo la prima guerra mondiale continua l’espansione degli impianti e nel 1937 inizia la produzione in loco della cellulosa, precedentemente acquistata come materia prima e trasportata via ferrovia alla fabbrica.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale ferma gli impianti e le famiglie proprietarie, Vita e Mayer, devono riparare in svizzera poiché di origini ebraiche.

Gli impianti non subiscono danni durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra la produzione può ripartire facilmente. La cartiera vede una nuova inarrestabile crescita che porta ad un’espansione anche a sud con la creazione di un nuovo polo produttivo per il mercato dei prodotti cartacei usa e getta: tale nuovo polo produttivo sarà costituito da Astorre Mayer come azienda a se’ stante, con la denominazione di Cartiera di Cairate – VI.MA. Non è oggetto di questa scheda ma ce ne occuperemo in futuro.

Si arriva agli inizi degli anni ’60 ad avere una produzione di 80.000 tonnellate di carta annue e 2.500 dipendenti.

Negli anni ’70 un mercato sempre più competitivo e la scarsità di materia prima portano a un lento declino della fabbrica, sino alla chiusura definitiva nel 1977.

Attualmente l’area è proprietà della società Prealpi Servizi che ha iniziato dal 2010 bonifiche e demolizioni degli edifici più ammalorati.

Funzione degli edifici della cartiera

Legenda
1. Saccheria e magazzini (1930)
2. Falegnameria e laboratorio fisico (1930)
3. Macchina continua (1936)
4. Officina meccanica ed elettrica (1936)
5. Deposito cellulosa (1937)
6. Locale trance vecchie (1938)
7. Caustificazione e vecchie caldaie (1938)
8. Magazzini e autorimesse (1938)
9. Locale molazze e controllo (1940)
10. Decantazione e chiarificazione acqua (1947)
11. Cottura continua e discontinua (1950)
12. Macchina continua (1950)
13. Deposito solfato (1955)
14. Portineria e pesa (1958)
15. Impianto biossido di cloro (1960)
16. Imbianchimento (1960)
17. Caldaia Tomlinson con ciminiera (1961)
18. Silos minuzzoli (1961)
19. Cottura continua (1963)
20. Lavaggio cellulosa (1963)
21. Scortecciamento e sminuzzamento legno (?)


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Officine Romanazzi

Nel 1907 Stefano Romanazzi apre a Putignano, in provincia di Bari, una piccola officina per la costruzione di carrozze. Nel 1912, dopo la morte di Stefano, l’attività, che nel frattempo sta avendo grande successo, viene spostata dal figlio Nicola dalla piccola officina a una sede più grande nel capoluogo, Bari.

La produzione si orienta sulla costruzione delle carrozze per tramvai a cavallo, andando incontro alla forte domanda del periodo. La Romanazzi riesce a superare con forza la crisi della fine del primo ventennio del secolo scorso, arrivando a spostarsi in una sede ancora più grande, sempre a Bari, con ben settanta dipendenti.

Da quel momento, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, la produzione si concentra nel settore degli autoveicoli industriali destinati ai nuovi centri di espansione italiana all’estero.

Alla fine del conflitto, viene ricostruito l’impianto di Bari e una nuova sede viene aperta a Roma. Qui sarà portata la produzione e la direzione con gli uffici ed è l’oggetto delle nostre fotografie in questa scheda.

Una bizzarra vetturetta (l’unica mai creata dalla Romanazzi) costruita carrozzando un telaio e motore di un’Ape Piaggio (1953) – Fonte allcarindex.com

Con le officine di Roma la Romanazzi si colloca in breve tempo tra le prime aziende del proprio settore. La sede romana sorge in quella che, all’epoca, era piena campagna, all’angolo tra via Tiburtina e via di Tor Cervara, a pochi metri di distanza dalla fabbrica della penicillina Leo.

Operai delle Officine Romanazzi, davanti allo stabilimento di Roma, in una foto d’epoca dell’archivio de l’Unità

Nel 1950, dopo la morte di Nicola, i quattro figli si occupano assieme dell’azienda: Stefano ed Aurelio, a Bari e Paolo con Benedetto a Roma.

Il boom economico vede la Romanazzi protagonista delle nuove necessità di trasporto e l’azienda apre nuove sedi in Italia: Cagliari (1958), Napoli (1962), Palermo (1963), Brescia (1964) e Torino (1967).

Agli inizi degli anni ’70 inizia quella che sarà una lunga e proficua collaborazione con il gruppo FIAT (successivamente IVECO) che porterà la Romanazzi ad aprire sedi anche all’estero, nei paesi in cui l’export della casa torinese è più forte (principalmente Francia e Germania).

La produzione principale riguarda semi/rimorchi, ribaltabili, cassoni in lega, assi aggiunti che vengono distribuiti, oltre che sul territorio nazionale, anche in Europa, nei paesi del Nord Africa, Medio ed Estremo Oriente. L’innovazione tecnologica consente lo sviluppo di una nuova linea di produzione per i cassoni fissi, interamente realizzati in acciaio inox con sponde in lega.

Personaggio di spicco nella storia dell’azienda nei suoi anni di maggior splendore è stato Paolo Romanazzi. Imprenditore “all’antica”, vuole la leggenda fosse uno dei primi a entrare la mattina negli stabilimenti di via Tiburtina 1072, controllando sempre tutto di persona.

Paolo Romanazzi

Grande frequentatore dei salotti buoni e della dolce vita romana degli anni ruggenti, era amico personale del Senatore Giovanni Agnelli, oltre che suo partner industriale. Sfuggì a un tentativo di sequestro sul grande raccordo anulare di Roma: erano gli anni ’70 quando quasi tutti i grandi industriali, per timore di simili episodi, mandavano i propri figli a vivere e a studiare in Svizzera. Paolo Romanazzi muore nel 2017 a 83 anni dopo aver assistito al fallimento della propria azienda.

L’area delle officine a Roma è stata in parte riutilizzata con la costruzione di un edificio adibito a uffici, nella parte prospicente la via Tiburtina, mentre alle sue spalle sopravvivono le rovine dei capannoni industriali. Il tentativo di recupero dell’area, in cui si era ipotizzato di costruire la nuova sede di Poste Italiane, non andò a buon fine, sfociando in un lunghissimo contenzioso giudiziario tra la famiglia Romanazzi e le autorità italiane, arrivato sino al giudizio avverso ai Romanazzi, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.  L’impegno economico per questa riconversione poi sfumata, portò alla bancarotta dell’azienda.


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Il Campo Boario del mattatoio di Roma

Il Campo Boario a Testaccio, ventesimo rione di Roma, fu realizzato a tempo di record tra il 1888 e il 1891 su progetto dell’architetto Gioacchino Ersoch. Situato in posizione adiacente al nuovo mattatoio di Testaccio, progettato e costruito negli stessi anni da Ersoch, il campo Boario era il luogo dove venivano custoditi gli animali prima di essere avviati al macello e dove si effettuavano le contrattazioni tra i mercanti di bestiame. L’area era divisa in due zone, una per il bestiame domito e una per quello indomito, con ingressi e uscite diversi. Un camminamento, protetto da barriere di ferro, consentiva il passaggio delle persone verso l’area delle contrattazioni; a metà circa del percorso fu costruito un padiglione a due piani con la funzione di torretta di controllo; infatti dalla terrazza , raggiungibile grazie ad una scala elicoidale in ferro, era possibile osservare tutto il mercato.

L’area su cui sorgeva il Campo Boario aveva una superficie superiore a quella del mattatoio vero e proprio (55.000 mq circa contro i 50.000 mq). I manufatti che compongono lo stabilimento furono realizzati sul principio della modularità; ciò è evidente soprattutto nelle strutture in ferro, che combinate in vario modo, formavano i ricoveri per il bestiame e i padiglioni dove si esponevano gli animali. Il ferro fu usato dall’architetto anche per la sua capacità di durata nel tempo.

Il mattatoio di Roma fu per molti anni il più avanzato in Europa.

Fu dismesso nel 1975 e sostituito con una nuova struttura posta al quartiere Prenestino. Nel 1976 negli spazi del Campo e del Mattatoio furono girate alcune scene del film “I padroni della città” di Fernando di Leo. Nel 1977 cominciarono i primi smantellamenti.

Le fotografie presenti nella galleria più sotto risalgono alla fine degli anni ’70.

Negli spazi del Campo Boario, nel 2007, è stata inaugurata la sede permanente di 3500 mq della Città dell’Altra Economia, con esposizione, vendita, ed eventi dedicati alla agricoltura biologica e solidale. Nell’area sono presenti anche una libreria, una ludoteca, un bar e un ristorante a vocazione biologica.

Nel mattatotio invece sono stati ristrutturati diversi padiglioni:

  • nel 2002 due di essi sono stati destinati alla seconda sede del museo MACRO
  • nel 2010 uno di essi è stato aperto a studenti e docenti della facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre
  • nel 2013 in 3 padiglioni sono stati trasferiti gli uffici e i laboratori del Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre
  • all’ingresso è ospitata la Scuola popolare di musica di Testaccio e il centro anziani Testaccio

 

  •  

Prospetti

Veduta del Campo Boario dal Monte dei Cocci (inizi ‘900)

Al centro si puo’ vedere la torretta di osservazione; sulla sinistra i padiglioni per la vendita del bestiame; a destra della torretta i numerosi rimessini che furono tolti nel 1997 e ancora piu’ a destra le tettoie che coprivano i camminamenti.

       
Padiglione centrale e padiglioni vendita del bestiame
       
Edificio destinato agli uffici e alla Borsa
       
Fabbricato di ingresso al mercato del bestiame

Le immagini precedenti sono tratte dal libro “Roma Memorie di una città industriale” recensito qui

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Riferimenti in rete

 

Zuccherificio di Foligno

Il 28 ottobre del 1899 venne costituita la Società Italo Belga per la fabbricazione degli zuccheri, che individuò nell’area di Foligno il luogo adatto per l’installazione dell’impianto.
La località fu scelta perché era in posizione centrale rispetto all’Umbria ed aveva una estesa rete ferroviaria.
I lavori per la costruzione dello stabilimento iniziarono nel novembre 1899 su un’area di 3 ettari situata sulla riva destra del fiume Topino. L’opera venne conclusa nel giugno del 1900.
La fabbrica disponeva inizialmente di due motori a vapore da 200 hp, un motore elettrico da 50 hp e cinque caldaie a vapore da 600 hp come forza motrice e riscaldamento. La materia prima utilizzata era la barbabietola proveniente dall’Umbria, dall’Agro Romano e dalle Marche.
Nel 1903 l’azienda trasformò la sua ragione sociale in Società Romana per la Fabbricazione dello Zucchero. Nei primi anni del 1900 gli operai impiegati erano una trentina, che diventavano 200 durante la campagna saccarifera tra settembre e ottobre.
Nel 1911 venne annessa alla fabbrica una raffineria con una  capacità di 1000 quintali giornalieri; gli operai fissi arrivarono così a 80 unità mentre gli stagionali andavano dalle 300 alle 500 unità.
Nel 1913 lo stabilimento lavorava giornalmente 5000 q di bietole e produceva 400/500 q di zucchero greggio, che venivano subito raffinati e confezionati.
Fino alla seconda guerra mondiale si succedettero diversi ampliamenti: i silos per le barbabietole, un grande reparto per la distilleria e la palazzina dell’amministrazione. Furono  inoltre migliorati gli impianti per la produzione dell’energia elettrica e termica necessari alla vita dello stabilimento.
Lo zuccherificio, nel corso della seconda guerra mondiale, subì danni notevoli riguardanti sia la parte del corpo originario che quella dei magazzini, dei forni e della palazzina degli uffici. Gli edifici vennero risanati e venne aggiunto un nuovo magazzino. Lo zuccherificio conobbe negli anni del dopoguerra processi di razionalizzazione e di ammodernamento.
Nel 1973 lo stabilimento fu rilevato dalla Società Italiana per l’Industria degli Zuccheri; nel 1974  subentrò la Società generale degli zuccheri e infine la Società Cavarzere fino alla cessazione dell’attività produttiva che avvenne nel 1980.
Nel 1988 cominciò la demolizione di quasi tutto il complesso.

Visione satellitare del 2015

Visione satellitare del 2018

Attualmente è prevista nell’area, di proprietà della Coop Centro Italia, la costruzione di un centro commerciale, di attività di bar e ristorazione, di una ridotta zona residenziale e, si spera, la realizzazione del ‘Parco delle Arti e delle Scienze’ magari con un edificio che possa ospitare anche il nuovo teatro della città.

Foto storiche

 

Veduta interna degli impianti (1900)

Veduta interna degli impianti (1900)

Prospettiva sud-ovest

 

Prospettiva nord-est

Le fotografie ed i prospetti sono presi dal libro “Lo Zuccherificio di Foligno” recensito qui


Galleria Fotografica 

Manifattura Tabacchi Firenze

Lo stabilimento della Manifattura Tabacchi, situato nei pressi del parco delle Cascine a Firenze, viene costruito in sostituzione dei vecchi impianti collocati presso l’ex convento di Sant’Orsola e della chiesa sconsacrata di San Pancrazio.

Realizzato tra il 1933 e il 1940, ad opera di Pier Luigi Nervi e Giovanni Bartoli, lo stabilimento si estende su di una superficie di 6 ettari, comprende 16 edifici per un totale di 100.000 metri quadrati.

Il complesso è caratterizzato da una serie di edifici a planimetria e volumetria compatte, connotati da un inconfondibile stile razionalista. Il corpo della palazzini uffici e direzione è rivestito completamente in travertino.

Sull’entrata principale fanno bella mostra di sé dei bassorilievi raffiguranti la lavorazione del tabacco, opera di Francesco Coccia.

Faceva parte dello stabilimento anche il teatro Puccini, opera pregevole che ricorda l’architettura dello stadio fiorentino, progettato dallo stesso Nervi. Il teatro, nato come dopolavoro, è attualmente in uso per vari tipi di spettacoli.

All’epoca dell’edificazione nell’impianto operavano oltre 1.400 addetti, distribuiti a seconda dei ruoli nelle tre principali aree; il complesso comprendeva, tra gli altri spazi, anche le sale di maternità per le maestranze femminili.

La fabbrica  era servita direttamente dalla rete ferroviaria che, dalla stazione Leopolda, arrivava  fin dentro lo stabilimento.

Nella Manifattura Tabacchi di Firenze sono nate le famose sigarette MS, acronimo di Messis Summa (in latino “miglior raccolto”) che ricordava anche Monopoli di Stato e, nella cultura popolare, ironicamente, “Morte Sicura”.

MS

Oltre a queste note sigarette venivano prodotti i famosi sigari Toscani la cui storia è legata ad un aneddoto: sembra che nel 1815, quando la sede della Manifattura Tabacchi era presso l’ex convento di Santa Caterina, un improvviso acquazzone bagnò i barili di tabacco stoccati nel cortile. Tutta questa materia prima, diventata maleodorante, doveva essere destinata alla distruzione. Per limitare il danno economico, fu deciso di fare un prodotto di scarto dal basso costo, destinato al popolo. Nasce così il sigaro toscano, dalla forma sgraziata ma dal sapore particolare dovuto alla fermentazione. Ottiene talmente successo da diventare uno dei prodotti di punta della Manifattura Tabacchi di Firenze.

Lo stabilimento è rimasto in funzione fino a tempi recenti, chiudendo definitivamente la produzione nel 2001.

Ad oggi l’area è stata acquistata da una società privata e viene affittata per eventi. Non si esclude una riqualificazione a scopo abitativo.


Video a cura di ImmoDrone


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Zuccherificio Eridania di Codigoro

A Genova, nel 1899, viene costituita la “Società Anonima Eridania, fabbrica di zucchero” con lo scopo di produrre e commercializzare zucchero e prodotti affini.

Nello stesso anno a Codigoro, un piccolo comune della provincia di Ferrara, nasce il primo zuccherificio Eridania Zuccherifici Nazionali, denominazione che assumerà la più grande società saccarifera italiana. Al fine di ottenere un prodotto di qualità, Eridania investe non solo nella produzione industriale ma anche nella coltivazione della barbabietola da zucchero, soluzione che si rivela vincente consentendo dopo solo un anno la realizzazione di un secondo complesso industriale a Forlì.

Nel 1906 la giovane realtà imprenditoriale assume il nome di “Eridania Società Industriale“, evidenziando la sua vocazione commerciale, che si esprime anche con la costituzione di altri stabilimenti, tra cui la “Distilleria Padana” a Ferrara. L’ascesa viene frenata dagli anni della Grande Guerra e l’azienda si ristabilisce solo a partire dagli anni Venti, con la nascita di venti nuovi stabilimenti e la costituzione di ben quattordici nuove società saccarifere.

Nel 1930 la società si fonde con un altro grande produttore del settore, gli “Zuccherifici Nazionali”, dando vita alla “Eridania Zuccherifici Nazionali”. La fusione consente all’Eridania di controllare ventotto stabilimenti che producono il 60% del fabbisogno nazionale di zucchero. In quegli anni il presidente è Serafino Cevasco, entrato come semplice funzionario e poi divenuto presidente.

In questo video, presente sul canale ufficiale YouTube della Società Eridania, sono visibili splendide immagini storiche dello zuccherificio di Codigoro.

Nel 1966 la società Eridania viene acquistata dal petroliere Attilio Monti che la fonde con ben quattro altre società: “Saccarifera Lombarda”, “Emiliana Zuccheri”, “Saccarifera Sarda” e “Distillerie Italiane”. Durante la gestione del gruppo Monti si registra un importante incremento produttivo, dovuto principalmente ad un intervento di ammodernamento degli impianti.

Alla fine degli anni settanta la società viene completamente ceduta al “gruppo Ferruzzi” di Serafino Ferruzzi. Alla sua morte, nel 1979, il Gruppo Ferruzzi viene guidato dal genero Raul Gardini, che procede nella stessa politica di modernizzazione degli impianti e di chiusura degli stabilimenti obsoleti. La morte per suicidio di Raul Gardini, a seguito dell’inchiesta giudiziaria nota come “tangentopoli”, getta l’Eridania in una situazione di profonda precarietà.

Nel 2003 (fonte Wikipedia), dopo la scissione tra i nuovi soci delle attività industriali (5 stabilimenti a Coprob/Finbieticola e 2 stabilimenti al Gruppo Maccaferri), vengono costituite:

  • Italia Zuccheri S.p.A. (50% Coprob e 50% Finbieticola, ora 100% Coprob)
  • Eridania Sadam S.p.A. (Seci, Gruppo Maccaferri) a cui va il marchio Eridania detenuto tuttora insieme agli altri marchi commerciali dei prodotti.

Dopo una serie di cessioni e acquisizioni da parte di diverse società (consultare la pagina Wikipedia riportata in calce per ulteriori dettagli), arriviamo nel 2005 quando l’Unione Europea decide una drastica revisione della regolamentazione delle quote di produzione di zucchero. In base a queste nuove regole le società produttrici sono fortemente incentivate a restituire le quote contro una forte compensazione economica e quindi, di fatto, alla chiusura degli impianti produttivi.

Nel luglio 2016 il Gruppo Maccaferri cede il controllo della società Eridania Italia SPA, che detiene il marchio Eridania, al Gruppo Cooperativo francese Cristal Union tramite la società commerciale Cristal CO.


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Mostra di LostItaly a Milano

Mostra LostItaly Milano

Nuova tappa della mostra fotografica di LostItaly. Questa volta saremo ospiti della Cascina Martesana a Milano.

“Il progetto Lost in Time, selezionato dalla curatrice Paola Riccardi per il sesto appuntamento della rassegna fotografica triennale Altri Mondi, è una collettiva coordinata da Michele Greco. I fotografi in mostra sono tutti membri, assieme allo stesso Greco, del progetto LostItaly.it, che ha come obiettivo di creare una sorta di memoria collettiva attraverso un archivio di immagini di luoghi abbandonati, scattate dagli stessi fotografi ma anche con notizie storiche e fotografiche.”

La mostra si inaugura il 13 luglio 2018 e rimarrà esposta fino al 2 agosto.

Ulteriori informazioni sul sito della Cascina Martesana.

Per raggiungerci: Google Maps.

Aeronautica Caproni di Predappio

La Caproni fu un’industria aeronautica italiana fondata nel 1910 da Giovanni Battista Caproni. La fabbrica di Predappio fu costruita dove c’era un opificio realizzato dalla ditta Zolfi di Milano per la lavorazione dello zolfo estratto in loco.

L’attività estrattiva era poco concorrenziale e quindi la fabbrica divenne prima un laboratorio di ebanisteria (Ebanisteria Castelli) e successivamente, anche sfruttando l’esperienza della mano d’opera esistente (molte parti degli aerei erano in legno, all’epoca), divenne stabilimento dell’Aeronautica Caproni. I lavori per la realizzazione della fabbrica iniziarono nel 1933 e finirono nel 1941.

Nella fabbrica venivano costruite le parti in legno e metallo delle fusoliere e delle ali, poi trasportate all’aeroporto Ridolfi di Forlì dove avveniva l’assemblaggio finale degli aerei e il loro collaudo.

I principali aerei prodotti nello stabilimento di Predappio furono

Nel momento di maggior espansione la Caproni arrivò ad impiegare 1400 operai.

La fabbrica di Predappio realizzava anche componenti destinati ad altri produttori dello stesso gruppo industriale come le Officine Meccaniche Reggiane di Reggio Emilia (vedi scheda). La Caproni acquistò in seguito anche l’Isotta-Fraschini.

La fabbrica insiste sul costone di un canalone attraversato dalla strada: durante la guerra, dall’altra parte della strada, vennero scavate due grandi gallerie per mettere al riparo i materiali da eventuali bombardamenti. Tali gallerie ad oggi sono utilizzate per il progetto CICLoPE dell’Università di Bologna .

Il fatto che la fabbrica si trovi sul fianco di una collina ha fatto sì che i vari ambienti di produzione fossero realizzati su piani altimetrici differenti.

Le attività produttive erano così distribuite:

  • Piano terra: meccanica, collaudo materiali, controllo, forgie, torneria
  • Primo piano: saldatura elettrica, lattonieri, sabbiatura
  • Secondo piano: segheria, verniciatura
  • Terzo piano: intelaiaggio, falegnameria

 


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Zuccherificio di Granaiolo

Questo zuccherificio si trova nel comune di Castelfiorentino; inizia la sua attività nel 1899 e chiude con la sua ultima campagna nel 1971. La società che lo gestiva era la Società Italiana Industria Zuccheri con sede a Genova. Gran parte delle campagne circostanti erano coltivate a barbabietola, ed erano irrigate utilizzando l’acqua del fiume Elsa. Sembra che grazie alla bontà di queste acque lo zucchero di Granaiolo fosse particolarmente apprezzato, tanto da essere preferito anche dallo Stato Vaticano. La stessa acqua del fiume, tramite grosse pompe, veniva utilizzata come mezzo di trasporto per il passaggio dei vegetali dai bacini all’interno dello zuccherificio.

Nei primi anni di produzione, il trasporto della barbabietola avveniva unicamente su carri trainati da buoi; solo successivamente, verranno utilizzati camion o vagoni ferroviari attraverso la vicina linea ferroviaria.

La campagna di lavorazione durava dai tre a quattro mesi. In questo periodo gli operai lavoravano a ciclo continuo su tre turni; questo per garantire che il lavorato non si solidificasse andando a danneggiare irremediabilmente i macchinari. Vi lavoravano numerose persone appartenenti ai paesi limitrofi del territorio e spesso anche gli stessi coltivatori di barbabietola. Durante il resto dell’anno, circa settanta persone lavoravano come manutentori degli impianti.

In questo stabilimento si otteneva zucchero in cristalli o in zollette. La melassa, sottoprodotto della lavorazione era destinata all’industria dolciaria. Le fettucce, scarto della lavorazione, erano adibite a mangime per animali.

Nel comprensorio dello stabilimento, esisteva un attrezzato laboratorio chimico, la palazzina del direttore e alcune abitazioni per i dipendenti. Esisteva anche un magazzino di stoccaggio di cui oggi rimane solo lo scheletro in ferro.

Dopo quasi un secolo durante il quale a generato ricchezza per l’area di Granaiolo e dintorni, lo zuccherificio è stato costretto a chiudere a causa dei metodi di lavorazione non più aggiornati e concorrenziali.


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Società Aeronautica Italiana

Lo stabilimento, caratterizzato da capannoni di diverse epoche, si trova a Passignano, stretto tra la ferrovia e la riva del lago Trasimeno. La sua storia ha origini lontane, precisamente nel 1916, quando a Passignano fu istituita la prima scuola italiana per piloti di idrovolanti. La grande guerra aveva cambiato il modo di combattere, adesso lo si faceva anche dal cielo.

Dalla scuola di Passignano sul Trasimeno uscirono piloti del calibro di Raoul Lampugnani, che comandò durante il conflitto numerose squadriglie aeree sul fronte isontino, prestando servizio anche nella 6a Squadriglia Neuport agli ordini di Francesco Baracca, e Anselmo Cesaroni, ideatore dell’aeroporto di Castiglione del Lago, dove venne realizzato un idroscalo di maggiori dimensioni per sopperire alla carenza di spazi di Passignano.

Lo sviluppo tecnologico lo si ebbe dal 1922, quando l’Ingegner Ambrosini creò la SAI (Società Aeronautica Italiana). Enorme successo riscosse a cavallo tra gli anni venti e trenta, con l’avvento delle grandi imprese di Italo Balbo. Grazie a lui la capacità dei piloti e dei velivoli italiani divenne famosa in tutto il mondo. Ricordiamo le crociere aviatorie del Mediterraneo Occidentale (1928) e del Mediterraneo Orientale (1929). Quelle transatlantiche Italia-Brasile (dicembre 1930-gennaio 1931) e alla volta di Chicago e New York (luglio-agosto 1933).

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Ambrosini mise in produzione velivoli diventati famosi come il SAI 107, un caccia monoposto, il  SAI 207 e il SAI 403 Dardo.

Vista la sua vicinanza con la ferrovia, la S.A.I divenne durante la seconda guerra mondiale oggetto di bombardamenti. Nel 1944, subì notevoli danni alla struttura, proprio a causa di un bombardamento, oltre alla morte di 40 persone. Di conseguenza lo stabilimento venne smantellato poichè soltanto il 15% dei macchinari risultava ancora utilizzabile, ed i rimborsi di guerra ricevuti con ritardo nel 1966 non furono sufficienti a risanare il disastroso bilancio. 

Nel dopoguerra fu realizzata la serie degli aerei sportivi Grifo e Rondone e, per l’Aeronautica Militare, la serie di velivoli per addestramento caccia Ambrosini Super 7. L’azienda si distinse anche nella realizzazione di alianti tra i quali il modello Canguro che, pilotato dall’Ing. Ferrari, stabilì a Roma il primato di altezza raggiungendo la quota di 8200 metri. Nel corso della sua vita, l’azienda produsse apparecchiature di puntamento, sistemi radar e divenne leader nella lavorazione dell’alluminio. In anni più recenti, su richiesta dell’AMI, la SAI Ambrosini si dedicò anche ad un velivolo RPV (remote piloted vehicle) nonché ad un mini RPV, anticipando di molto tempo gli UAV oggi ampiamente impiegati in complesse missioni militari e non.

Il know-how acquisito fu poi impiegato per nuovi sofisticati progetti anche a carattere non aeronautico e dall’esperienza legata alla costruzione degli idrovolanti nacque la vocazione per le costruzioni navali. Sempre in questo campo, la SAI ha partecipato alla realizzazione di Azzurra, il dodici metri della prima sfida italiana alla Coppa America, del Moro di Venezia, nella versione in lega leggera, di Yena, per anni in vetta alle classifiche della classe IOR e che superò indenne la tempesta del Fastnet del 1979, di Longobarda, primo scafo in fibra di carbonio, di Emeroud di G. Frers. A Passignano fu realizzato il Silveray, un off shore dalle prestazioni esaltanti che rappresentava il miglior concentrato di esperienza aeronautica nella lavorazione delle leghe speciali.

Specializzata in scafi metallici con caratteristiche avanzate, la divisione navale ha prodotto secondo rigidi standard militari imbarcazioni per missioni di diversa natura. La SAI  intraprese anche il settore aerospaziale: fu costruttrice del primo aereo supersonico e del primo aereo guidato a distanza.

La targa commemorativa che ancora oggi è al cancello di entrata dello stabilimentio

Prima di cessare la sua attività, l’azienda attraversò un lungo periodo di crisi che la costrinse ad attuare una differenziazione industriale per quanto riguardava le produzioni: vennero fabbricati attrezzi agricoli, fisarmoniche, telai per motociclette e altri oggetti frutto della lavorazione della lega leggera. Nel 2003 è stato creato dall’azienda Tecnologie d’Avanguardia un marchio di orologi di precisione che ha utilizzato il marchio Sai Ambrosini e le tecnologie da esso sviluppate. Ultimamente, le palazzine uffici, sono state sede di un centro anziani e di altri scopi sociali; anche questa attività è stata abbandonata, per la presenza di materiale pericoloso all’interno dei capannoni.

La situazione odierna vede lo scheletro di molti capannoni più moderni ai quali sono stati tolti i tetti in eternit, le strutture più vecchie sono crollate sotto il peso del tempo e tutto quello che è rimasto è fortemente vandalizzato. Il triste epilogo di una storia gloriosa.

Da segnalare il libro “Aeronautica sul Trasimeno” di Claudio Bellaveglia. In questo testo, si parla di Passignano e del suo rapporto con la Sai, la sua storia e i vari tentativi di riqualifica. Queste le parole dell’autore durante la presentazione del libro: “Ho deciso di scrivere questo libro, per evitare che cada in oblio la parte più importante della storia recente di Passignano: quella che ha incrociato la fase iniziale dell’aviazione italiana, attraverso la scuola Allievi piloti di Idrovolanti dell’esercito e attraverso la produzione aeronautica della Sai”. 


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Bibliografia

  • Aeronautica sul Trasimeno. Storia della “SAI Ambrosini” di Passignano di Claudio Bellaveglia (ISBN 9788886200295)

Mostra di LostItaly ad Ostia

Nuova tappa della mostra fotografica di LostItaly. Questa volta saremo ospiti della biblioteca Elsa Morante di Ostia (RM).

La mostra inaugura sabato 13 gennaio alle ore 11:00 con l’intervento di Riccardo Pieroni, fotografo e docente di tecnica fotografica presso l’IISS “Rossellini” di Roma.

Ulteriori info sul sito della biblioteca Elsa Morante

Per raggiungerci: Google Maps

 

 

 

 

Le Cartiere di Amalfi

La produzione di carta ad Amalfi ebbe inizio tra il 1110 e il 1200. La tecnica della produzione, che si basava sulla macerazione degli stracci tramite magli chiodati mossi da mulini e successivamente lavorata tramite telai, fu probabilmente importata dagli arabi che a loro volta la copiarono dai cinesi. Quella prodotta ad Amalfi fu chiamata Charta Bambagina e fu utilizzata anche dalle corti degli Angioini e degli Aragonesi, ma nel 1220 Federico II ne proibì l’uso per i documenti ufficiali ritenendo che la pergamena fosse più adatta e duratura.
Nonostante ciò la produzione della carta continuò ad essere un’industria importante per la città.
Alla fine del 1700 nella “Valle dei Mulini” erano attive dalle 13 alle 16 cartiere, che sfruttavano la corrente del torrente Canneto per attivare, tramite le ruote dei mulini, i macchinari necessari alla produzione.
Con l’avvento dell’industrializzazione e di nuovi metodi per la realizzazione della carta, in aggiunta alle difficoltà di approvvigionamento delle materie prime e di trasporto del prodotto, iniziò una crisi irrefrenabile.
La politica protezionistica borbonica provò a rallentare il declino, portando a 38 le cartiere presenti in Amalfi e nelle zone limitrofe, ma il tracollo, complice una disastrosa alluvione nel 1954 che distrusse quasi tutte le cartiere lasciandone in piedi soltanto 3, fu inevitabile.
Attualmente in Amalfi sono presenti ed attive ancora due cartiere che realizzano prodotti di alta qualità usate dallo stato del Vaticano o per la pubblicazione di eleganti opere editoriali.

Ad Amalfi è presente dal 1969 Il Museo della carta realizzato in un ex-cartiera.

Galleria fotografica (’80)

 

Riferimenti in rete

Inaugurazione della Mostra di LostItaly a Firenze

Alcune immagini e gli interventi dei relatori Gianni Capitani e Paolo Quattrini in occasione dell’inaugurazione della mostra di LostItaly presso la biblioteca BiblioteCaNova Isolotto di Firenze.

Introduzione di Michele Greco

L’introduzione della mostra è stata basata sul seguente passaggio del libro “Una vita per strada” di Joseph Mitchell:

“Come ho detto, sono fortemente attratto dalle vecchie chiese. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi alberghi. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi ristoranti, dai vecchi bar, dalle vecchie case popolari, dalle vecchie stazioni di polizia, dai vecchi palazzi di giustizia, dalle vecchie tipografie, dalle vecchie banche, dai vecchi grattacieli. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi
pontili e dalle vecchie stazioni marittime e dalle aree portuali in genere. E sono inoltre fortemente attratto dai vecchi mercati e più di tutti dal Fulton Fish Market. E sono inoltre fortemente attratto  da una dozzina di vecchi edifici, la maggioranza dei quali in Lower Broadway e sulla Fifth e la Sixth Avenue nel tratto tra la Ventesima e la Quarantesima, un tempo grandi magazzini diventati in seguito abitazioni o depositi, quando i grandi magazzini – alcuni famosi e rinomati e perfino amati ai loro tempi e ormai del tutto dimenticati – hanno chiuso o si sono trasferiti in altri edifici nei quartieri residenziali della città.

Sono inoltre fortemente attratto da certi luoghi nei quali in genere è «vietato l’accesso», come indicano i cartelli, «ai non addetti ai lavori» – gli scavi per esempio, e edifici e altre strutture in demolizione. […] Sono stato in decine di edifici in fase di demolizione (arrampicarmi sui ponteggi è la mia passione) e sono salito su decine di grattacieli in costruzione, e ho visitato una mezza dozzina di ponti in costruzione, e sono sceso in tre tunnel in costruzione – il Queens Midtown Tunnel, il Lincoln Tunnel e il Brooklyn-Battery Tunnel – e ho guardato le ruspe farsi strada centimetro dopo centimetro nel letto del fiume. E sono inoltre fortemente attratto da certi sotterranei e da certe torri. Sono sceso nelle cripte della chiesa della Trinità e sono sceso nelle camere blindate della Federal Reserve Bank, e sono sceso nei vecchi sotterranei in disuso dei grandi magazzini abbandonati, tra archi in mattoni rossi, sotto il ponte di Brooklyn dal lato di Manhattan, sotterranei che emanano ancora l’odore stantio ma gradevole di alcuni prodotti che vi
erano immagazzinati – vino in botti, cuoio e pelle proveniente dal quartiere del pellame all’ingrosso, conosciuto con il nome di Swamp, che un tempo era adiacente al ponte e ora è stato demolito, e pesce in eccedenza conservato al fresco dai pescivendoli del Fulton Market, non molto distante, da vendere a costi elevati. Sono stato sulla cupola del City Hall e sulla torre del Municipal Building e nella cupola del vecchio Police Headquarters e sono stato su entrambi i campanili della cattedrale di St. Patrick e mi sono inerpicato sulla scala paurosa che sta nel braccio alzato della statua della Libertà e mi sono affacciato (ma solo per qualche istante) sulla stretta balconata intorno alla torcia e sono stato nelle soffitte e sui tetti di decine di vecchi edifici sbarrati e decretati inagibili.”

Con queste parole Joseph Mitchell (1908-1996), firma di punta per 60 anni del New Yorker, descrive il proprio girovagare per gli edifici dismessi o fatiscenti della New York “orizzontale” che stava via via scomparendo sotto i colpi della New York “verticale” che stava sorgendo ad inizi degli anni ’60. Un muoversi per la città che noi oggi chiameremo “esplorazione urbana”, certo Mitchell ha raccontato molto altro di New York, ne è stato il biografo principale, ed anche grazie a questo suo vagare, come lui stesso ammette, che è riuscito a sentirsi a suo agio in una città non sua, ma ci piace considerarlo un “esploratore urbano” ante-litteram. Noi, come lui, cerchiamo di raccontare, lui con «la carta da lettera intestata del giornale e una matita dalla punta morbida nella giacca», noi con la macchina fotografica, una civiltà che, nelle sue diverse declinazioni: industriale – postindustriale- post boom economico, sta scomparendo, lasciando, come sempre succede in quel ciclo inarrestabile che parte dalla notte dei tempi, rovine. Rovine che sono sotto gli occhi di tutti, ma, esattamente come quelle descritte da Mitchell in molti dei suoi articoli, invisibili ai più, o spesso, peggio, non viste come un’eredità di quello che si era, ma bensì un segno di un passato non più utile, da dimenticare, degrado, e, dunque, da cancellare. È quindi nostra intenzione continuare, con i mezzi che ci sono propri, a tener viva la memoria di un passato recente a cui dobbiamo, nel bene e nel male, ciò che siamo, ciò che la nostra società tecnologica (e non) è, prima che di esso non resti più traccia.

Interventi di Michele Greco, Gianni Capitani e Paolo Quattrini

L’allestimento e l’inaugurazione

 

Il catalogo della mostra, in vendita su Blurb