Inaugurazione della mostra di LostItaly a Roma

Alcune immagini e gli interventi dei Proff. Prezioso e Manodori in occasione dell’inaugurazione della mostra di LostItaly presso la biblioteca Vilfredo Pareto dell’Università di Tor Vergata a Roma.

La mostra sarà ancora visitabile sino a fine luglio

Gli interventi del Professor Sagredo Manodori e della Professoressa Prezioso

 

L’allestimento e l’inaugurazione

 

Il catalogo della mostra, in vendita su Blurb

La presentazione della Professoressa Maria Prezioso

Ci sono molti motivi per apprezzare questa mostra fotografica e il lavoro, appassionato, che c’è dietro. Come molti sono i modi di visitarla. Possiamo immaginarla come un Grand Tour nella modernità, o un omaggio all’economia che fu e avrebbe potuto essere, o all’architettura e all’ingegneria funzionaliste, o all’evoluzione della teoria delle arti visive, o alla semiologia del “dentro” e del “fuori”, o alla filosofia del sogno e dell’immaginazione.
L’invito al visitatore è, tuttavia, a collocare il visto percepito nel proprio immaginario, ma non nel passato. Perché le fotografie esposte sono una forte indicazione a guardare al presente cui appartengono gli oggetti di un’architettura industriale, oggi considerata archeologia; e al futuro che potrebbero portare con sé, se si riaprisse un confronto culturale sul luogo economico.
Inquadrando questa mostra nei grandi cambiamenti che l’Europa si attende dalle città e dai territori italiani perché diano sostanza ad un’economia sempre più coesa e sostenibile, le foto fissano oggi un possibile punto di partenza. Esse, rappresentando oggetti simbolici di una crescita e di un’occupazione non più percorribile, manifestano i limiti di una politica pubblica che ha visto nelle “aree dismesse” quasi esclusivamente un problema di riuso e di recupero, suggestioni progettuali alla trasformazione di aree ormai interne alla città consolidata e alla sua dimensione economico-territoriale.
Come si può intuire guardando con attenzione ai contenuti delle foto, la dimensione interessata dai manufatti dismessi è, invece, di vasta postata. Anche limitando questo discorso a quelli industriali, ampiamente rappresentati nella mostra, gli edifici industriali hanno finito per costituire un ‘disvalore’ per il sistema urbano e territoriale di riferimento, di cui, in passato, avevano ispirato organizzazione e crescita. Fotografare edifici industriali dismessi non è, tuttavia, una rinuncia alla valorizzazione di un contesto. Semmai il contrario. E’ un ‘indizio’ che gli Autori delle immagini – di cui si apprezza anche l’aspetto artistico – regalano alla politica perché trasformi apparenti ‘vuoti’ economici e sociali in collegamenti culturali, abbandonando l’idea della relazione convenzionale. There’s nothing new, only the history you don’t know yet diceva Truman.
C’è tanto di raro, tanto di utile e tanto di reale e potenziale godibilità negli edifici che la mostra mette in luce perché non li si tratti come un bene economico. Non solo perché alcuni portano la firma di grandi progettisti che ne hanno fatto occasione di innovazione anche tecnologica. Non solo perché sono attrattori culturali per una nuova generazione ‘grigia’ fatta di writer, raver, player tecnologici che ne godono liberamente la spazialità. Non solo perché le esperienze europee ne hanno dimostrato, dagli anni ’70 dello scorso secolo, l’evidenza funzionale, economica e politica. Le foto trasmettono una relazione più profonda, dicotomica, tra perdita di funzionalità del luogo e capacità, in nuce, di essere nuovamente elemento ordinatore di una pianificazione strategica coesiva che integra il luogo nel più ampio processo di sviluppo urbano, che si misura con i nuovi temi della domanda di politica pubblica, di società e di economia: l’inclusione, degli spazi come dei migranti; l’intelligenza, tecnologica come formativa; la sostenibilità, energetica come climatica. Una capacità produttiva, insomma, urbana e territoriale, di cui i luoghi dismessi sono una parte di capitale.
Certo la scala geografica del luogo gioca un ruolo importante in questo discorso e si impone in tutta la sua evidenza soprattutto quando il recupero della dismissione tocca, per funzionalità, il livello regionale o nazionale, oltre quello locale; e, dunque, la centralità degli orientamenti delle scelte politiche. Nelle molte soluzioni che hanno affrontato il rapporto tra dismissione e intervento rigenerativo (soprattutto a Londra, Parigi, Torino e a Milano negli anni ’80), è l’intero sistema della policy, strutturale e infrastrutturale, a muoversi quando si interviene sul ‘segno’: ricucendo tessuti, rigenerando commercioe ,residenzae e housing sociale, programmando e riallocando servizi di interesse generale, migliorando accessibilità, incrementando valore fondiario non speculativo.
A questo scopo, i piani urbanistici tradizionali non servono più, mentre è sempre più importante il riferimento a categorie strategiche di ampio respiro e medio periodo. Città con un passato industriale si sono candidate a ricoprire il ruolo di capitale culturale europea per (ri)connettersi con il mondo superando il dilemma del “che fare di queste aree” definite anche derelict. Le Resurgent metropolis and city industriali – termine coniato negli US dal geografo Allen J. Scott – evidenziano una nuova dinamica dell’economia urbana basata sulla capacità di produrre sistemi cognitivi-culturali rigenerati e differenziati, in cui è fondamentale l’atteggiamento della collettività nel considerare il vantaggio competitivo rappresentato dagli edifici e dalle aree dismessi. Nei confronti dei quali una governance propria dovrebbe emergere, come già si intuiva negli anni ’80, il periodo forse più intenso, anche in termini di indagine fotografica, per ricerche e proposte dedicate agli edifici di archeologia industriale in Italia, a cui le foto in mostra sono dedicate.
Fotografarne l’interno, lo stato, la decomposizione, i “resti fisici”, come li definiva Antonello Negri, è una scelta. Come è una scelta l’allestimento della mostra in spazi generalmente dedicati ‘ad altro’. Il gioco che si sviluppa è quello della prospettiva lineare (il visitatore vede e si fa vedere) che si incrocia con un ‘labirinto panoptico’ (l’artista autore vede e fotografa ma non si fa vedere), e lancia un invito a proseguire nel suscitare emozione e sogni che accompagnano il percorso della mostra in un dialogo muto, sino a diventare parte del racconto che gli edifici industriali dismessi suscitano; fino ad immaginare e fare propri i pensieri degli Autori che li narrano.
Con la fotografia, come arte visiva, è facile e difficile allo stesso tempo trattare il tema dell’immaginazione archeologica e industriale. E’ facile, perché gli Autori fanno parlare il paesaggio, il territorio, l’economia, l’identità. E si muovono tra edifici noti, città industriali e post, città della crisi e del sociale. E’ difficile perché gli Autori hanno saputo trarre dai luoghi fascino e anima, e sembrano allontanarli dalla scienza riportando il visitatore ad un passato dimenticato o sconosciuto ai più giovani. Come non richiamare alla memoria Calvino o Le Goff se l’anima di questi luoghi, la loro vocazione intrinseca, il sogno che li accompagnava nell’ideazione dello sviluppo, non si è felicemente compiuto?
Dunque, mentre nel mondo di cui facciamo parte la città si stima, si misura, si calcola, le foto che compongono questa mostra ci parlano soprattutto di una economia che non è più e di una che non si vede ancora. Ci costringono a ripensarla ed immaginarla come vorremmo che fosse. Ci costringono a progettare.
Negli anni in cui questi edifici sono nati, l’evidenza di limiti naturali e sociali alla crescita economica non sollecitava un ampio dibattito sul tema della qualità della vita urbana: il processo politico che innervava la teoria e la pratica dello sviluppo non era ancora chiaro e non forniva interpretazioni alle crisi cicliche che la città industriale, luogo di varia agglomerazione, avrebbe vissuto. Testimoni di una identità cui appartengono per storia e cultura, questi edifici potrebbero parlare ancora. “C’è una dimensione della storia che da qualche anno ha catturato sempre più il mio interesse” scriveva Le Goff nel 1985, “la dimensione dell’immaginario. Vaga com’è per natura a maggior ragione occorre prima definirla”. E’ la rappresentazione, il documento su cui lavora il fotografo, ad essere la base dell’immaginazione, perché “nell’immaginario c’è immagine” affermava Le Goff e “questa ti può portare ovunque” se crediamo ad Einstein, perché “l’originalità di un’idea non ha lo scopo di essere stampata (solo) su un foglio di carta ma di dimostrarla valida realizzando un esperimento originale” (Blackett, 1962). E questo è quello che fa questa mostra.

La presentazione del Professor Manodori Sagredo

LostItaly ovvero la memoria di un’età industriale perduta
La luce che svela le forme architettoniche più originali, i punti di vista dove le prospettive brunelleschiane accettano di convivere con altre più ravvicinate e/o panoramiche, le messe a fuoco che scandiscono superfici e tonalità dei chiaroscuri, danno alle immagini fotografiche di questa mostra un vocabolario dei più espressivi e restituiscono a quelle tutta la forza evocativa che sostanzia ogni fotografia.
I fotografi si mostrano tanto attenti quanto sensibili, avvertiti quanto partecipi con il senso ultimo dei protagonisti della scena che l’obbiettivo seleziona e inquadra.
Ma qual è il volto che si svela nelle fotografie che con tanta passione e acume i fotografi hanno saputo riprendere?
Cimiteri abitati da spettri? Fatiscenze in attesa di demolizione? Abbandono colpevole o irresponsabile oppure naturale degrado e inevitabile cancellazione di pagine di storia ormai tramontata?
Come antiche rovine archeologiche, come resti disgregati e sconvolti da antichi sismi, le strutture di architetture abbandonate resistono in virtù della recente loro disgrazia, della chiusura compianta della loro attività produttiva e della loro dimensione che nel vuoto degli spazi desolati appare gigante.
Il ritratto fotografico di tanta desolazione è segno di memoria affidata al tempo a venire, oppure è denuncia dell’indifferenza e dell’ignoranza di quanto quelle tristi forme rivelano?
Insomma c’è da correre a metter mano all’opera di conservazione e di tutela oppure è giunta l’ora di rassegnarsi alla cieca volontà del tempo che tutto divora?
Se, com’è vero, la fotografia è traccia indelebile di memoria allora le immagini degli stabilimenti, per lo più industriali ma non solo, custodiscono i segni di ardite architetture che rivelano la creatività dell’ingegno imprenditoriale e la forza del lavoro operaio.
L’impegno dell’Italia che seppe risorgere dalle macerie della infausta e disgraziata guerra è scolpito come geroglifico incancellabile nelle volte aeree o nei moltiplicati pilastri che disegnano lo spazio che un tempo risuonò della voce delle macchine e degli uomini.
I resti della grande industria italiana della seconda metà del Novecento come cattedrali scomunicate sono ora attraversati dal vento e accendono in chi le guarda un’emozione coinvolgente che rievoca più antiche grida di dolore.
I fotografi di LostItaly hanno avuto il coraggio di penetrare nel silenzio di sale che il vuoto rende sempre più grandi e di puntarvi l’obbiettivo fotografico per prenderne non solo l’abbandono ma l’agonia in corso, come se le pareti scorticate di cemento armato affannosamente e impercettibilmente respirassero.
I fotografi hanno auscultato il polso degli edifici abbandonati e hanno fatto della macchina fotografica lo strumento capace di far scattare una inaspettata presa di coscienza in coloro che vedranno le immagini riprese.
Un dialogo e non solo una constatazione si genera tra le fotografie e chi le osserva che è così costretto o sospinto a prendere una posizione tanto morale quanto intellettuale, tanto di partecipazione quanto affettiva perché si accorge che quel mondo dimenticato gli appartiene e che lui stesso ne è parte.
Allora alcune fotografie acquistano un valore aggiunto proprio perché legate alle altre come quelle degli abiti dimenticati dei reclusi in un ospedale psichiatrico sulle cui maniche sta la fascia identitaria che ricorda ben altri segni, tristi anzi tragici, apposti su abiti e divise, oppure quelle di ville settecentesche abbandonate e spogliate da mani furtive che sembrano chiedere spiegazione e giustificazione di tanta oltraggiosa dimenticanza.
Come figli abbandonati, orfani non dei genitori che le misero al mondo ma degli eredi che non le riconoscono più, tutte le architetture fotografate mostrano una salda dignità di non piangere e nel contempo il coraggio di lasciarsi fotografare nella loro cruda e desolante nudità.
Questa mostra è quindi un atto d’accusa che non ammette ricorso in appello e basta osservarne le fotografie per schierarsi dalla parte degli ultimi difensori.