Metallurgica Vittorio Cobianchi

La ferriera nasce ad Omegna (VB) da una piccola azienda produttrice di fil di ferro fondata nel 1857 da Vittorio Cobianchi.
Negli anni compresi trai il 1888 e il 1891 l’azienda, sfruttando le acque di un canale artificiale emissario del lago d’Orta, utilizza macchinari più moderni sia a vapore che elettrici: la produzione e conseguentemente la mano d’opera aumentano.
Agli inizi del Novecento lo stabilimento si estende su di un’area di 120.000 metri quadri e occupa 500 operai circa.
Negli anni Venti l’azienda attraversa un periodo di crisi e la proprietà passa dal figlio di Vittorio al genero, avvocato Alliata, che, grazie alla diversificazione dei prodotti, riesce a risollevarne le sorti. Il periodo di maggior sviluppo, quando la mano d’opera assomma a 1.400 operai, si interrompe negli anni cinquanta con la chiusura di alcuni reparti.
Negli anni Settanta il gruppo Alliata cede l’attività al gruppo Pietra di Brescia che la porta avanti fino al 1982 quando la fabbrica chiude definitivamente i battenti.

Su di una parte dell’area della metallurgica sorge adesso il “Forum Omegna”, istituzione che promuove la ricerca storica e la conservazione della memoria della civiltà industriale del territorio.

Una notizia degna di rilievo è la storia del Ferrital perche’ si ricollega a quanto scritto nella scheda della “Meccanica Romana” a proposito del tentativo di estrarre ferro dalla sabbie di Ostia.
C’è stata poi la questione del Ferrital. Il fat­to è questo: due ingegneri che si occupavano anche di siderurgia, si chiamavano Arata e Venzi, romani, ebbero l’idea di sfruttare le sab­bie ferrifere del lido di Ostia.
C’erano delle enormi distese di que­sta sabbia che era nera e proveniva addirittura dall’epoca romana, perché i romani sapevano fare anche l’acciaio, le spade dei romani non erano di ferro ma d’acciaio. Allora loro hanno fatto un proce­dimento, l’hanno studiato e succedeva questo: mettendo in un for­no elettrico del minerale di ferro il prodotto che saltava fuori era la ghisa, mettendo in un forno elettrico delle sabbie ferrifere del lido
di Ostia assieme a qualche correttivo di alluminio e a un po’ di car­bone dolce, di quello che fanno i carbonai con la legna delle valli, anziché saltar fuori della ghisa, chissà perché saltava fuori del ferro quasi puro, ferro astrale, siderale, cioè quello che c’è nel cosmo. Era un ferro che aveva delle qualità fantastiche: duttile, malleabile, insomma assomigliava in modo incredibile al rame, era talmente dolce che assomigliava al rame.
Allora c’era l’autarchia, uno che avesse trovato la maniera di sostituire al rame costosissimo e intro­vabile per noi italiani – capirà, non abbiamo neanche gli occhi da piangere in materia di rame – e l’avesse sostituito con un ferro dalle stesse caratteristiche proveniente da un magazzino enorme come le sabbie del lido di Ostia, diventava un salvatore della patria. Allora di questo Ferrital se n’è parlato in tutte le salse… Saltava fuori que­sto ferro però succedeva che per ottenerlo non bastava fare una so­la colata, bisognava rifonderlo due o tre volte e costava un occhio della testa, altro che il rame. Allora cosa ha pensato il nostro Com­missariato per le produzioni di guerra? Ha pensato di adoperare questo Ferrital per fare i bossoli delle cartucce di mitragliatrice e di fucile oppure per fare rocchetti di ferrocromo, perché fosse ancora più inossidabile, dato che il ferro siderale da solo si ossidava.
Quei rocchetti li abbiamo fatti e servivano per i siluri telecomandati o qualcosa del genere. Noi allora, con quella scusa lì di fare il Ferri- tal, ottenevamo con molta facilità tutte le altre cose come il carbone e le ferroleghe, ma è stato un bluff. L’esperimento ad ogni modo in Italia l’ha fatto solo la Cobianchi. E il “Corriere della Sera” nel ’39 titolava: Un interessante dimostrazione a Omegna. Naturalmente i tedeschi, la prima cosa che han chiesto venendo qui è stato il Ferrital, sapevano che qui c’era il Ferrital, invece han trovato.
.”
Il libro da cui è stata tratta la testimonianza precedente è “Uomini di Ferriera” di Filippo Colombara.

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Attraverso le testimonianze degli operai della Metallurgica Vittoria Cobianchi scorrono i momenti salienti del Novecento: le prime attività sindacali, l’occupazione della fabbrica, il ventennio fascista, la resistenza ed infine le lotte contro la chiusura.
Un libro importante per non lasciar cadere nell’oblio quella che è stata la realtà operaia del 900.

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Colonia Fara

La colonia marina fu voluta dal Partito Nazionale Fascista nel 1935 come luogo di villegiatura estivo per i fanciulli, nel quadro dei programmi di welfare del regime.

Progettata dall’ing. Camillo Nardi Greco (che aveva già realizzato le colonie di Savignone – Renesso e Montemaggio nel 1933 – e di Rovegno – nel 1934 -)  e dall’arch. Lorenzo Castello, venne inaugurata el 1938 alla presenza di Benito Mussolini. Si chiamò Fara poichè dedicata al Generale Gustavo Fara.

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Durante la seconda guerra mondiale venne requisita ed adibita ad ospedale militare per tornare, nel 1946, ad essere una colonia estiva. Tra il 1947 e il 1955, ospitò i profughi d’Istria.

Negli anni ’60 venne convertita in “Ostello per la gioventù italiana”, cambiando denominazione in Faro. Qui sotto il volantino che la pubblicizzava all’epoca

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Negli anni ’80 il Comune di Chiavari la riutilizzò parzialmente come sede di un’associazione sportiva e di una scuola elementare. La mancanza di manutenzione portò al completo abbandono della struttura alla vigilia del 2000.

Dopo una lunga serie di vicende burocratiche e legali, nel 2015, sono iniziati i lavori di ristrutturazione. La colonia ospiterà un hotel, un centro benessere e alcuni appartamenti privati, oltre a una serie di servizi legati alle attività estive.

La colonia in fase di ristrutturazione (agosto 2016)

La colonia in fase di ristrutturazione (agosto 2016)


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Saponificio Annunziata

La storia del saponificio Annunziata di Ceccano è legata indissolubilmente alla figura del suo fondatore, Antonio Annunziata (1906-1984). Sin da piccolo Antonio impara il mestiere del saponificatore nella bottega del padre, Luigi, a Sora. Vuole la leggenda che il giovane Antonio, appena gli fu possibile, acquistò una moto Guzzi con cui faceva il giro dei lavatoi del circondario lasciando alle massaie campioni del suo sapone a fini promozionali.

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Nel 1929 l’attività artigiana degli Annunziata conta quindici operai e una produzione di ben sei quintali giornalieri. Per far fronte alle necessità di crescita, Antonio (che ha ormai preso le redini dell’impresa) deve trovare una nuova sede più ampia e la scelta cade su un’area della vicina Ceccano, che presenta due caratteristiche fondamentali per il ciclo produttivo e logistico: la vicinanza contemporanea del fiume Sacco e della ferrovia.

Lo stabilimento cresce rapidamente acquistando altri terreni confinanti sino a giungere alla superficie definitiva di 50.000 metri quadrati.  La maggior parte delle superfici esterne degli edifici dello stabilimento è realizzata in vetrocemento, rendendolo estremamente luminoso.

Antonio Annunziata è molto attento nella selezione del personale, prediligendo operai del suo paese natio, Sora, dei quali si fida di più e che hanno per lui una vera e propria venerazione.

Nel 1938 viene fondata la Società Anonima Stabilimenti Annunziata, con un capitale sociale di 250.000 lire e il numero di operai supera i 100.

Antonio Annunziata sovraintende tutti gli aspetti dell’attività industriale, dalla produzione al marketing, alimentando anche leggende che lo vedono assaggiare il sapone per verificarne dal gusto il grado di alcalinità. Nel marketing ha idee semplici ma molto efficaci: in primis la prova diretta del prodotto continuando la tradizione di quando, da ragazzo, andava in moto a lasciare campioni alle massaie presso i lavatoi. Durante la guerra d’Abissinia commercializza una saponetta dal marchio “negro”  che presenta l’immagine di un bimbo di colore che si sbianca grazie al sapone (messaggio oggi estremamente unfair che tra l’altro venne ripreso successivamente dalla Miralanza con Calimero che non era nero ma solo sporco).

Durante il ventennio fascista, a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale, sulle saponette da bucato viene stampata una scala rovesciata accompagnata dal motto “SALIRE SEMPRE”. Il marchio SCALA, da allora, accompagnerà sempre i prodotti dell’azienda e le sopravviverà fino ad essere utilizzato anche attualmente.

Durante la seconda guerra mondiale lo stabilimento viene danneggiato dai bombardamenti e alla fine del conflitto viene ricostruito e ammodernato: è del 1948 la trasformazione della ditta in Annunziata S.p.A. Nell’immediato dopo guerra il sapone è un genere di prima necessità e l’Annunziata ne produce di ottima qualità, con pochissima concorrenza (ancora nel 1959 l’Annunziata produce, da sola, un terzo del fabbisogno nazionale).

La crescita dell’azienda vede l’ingresso ai vertici dei due figli di Antonio: Luigi come responsabile vendite e amministrazione e Pasquale per gli acquisti e lo sviluppo.

La Annunziata creò un forte legame con la città di Ceccano non solo per l’importantissimo impatto occupazionale ma anche finanziando e sponsorizzando la squadra locale di calcio che ottenne lusinghieri risultati nella propria categoria, facendo dimenticare ai ceccanesi l’assenza di rappresentanza sindacale in fabbrica.

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In occasione delle elezioni comunali del 1952 la direzione dell’azienda fece circolare un volantino in cui diffidava dal votare per i socialcomunisti, pena lo spostamento degli investimenti in un’altra squadra di calcio, forse quella di Sora. Vinse comunque il PCI e non vi furono le temute rappresaglie, rimanendo la squadra in città.

Nel 1961 le organizzazioni sindacali entrano per la prima volta in fabbrica. L’Annunziata, per dare una parvenza di rappresentanza dei diritti dei lavoratori, presenta infatti una propria lista senza immaginare che anche CISL e CGIL avrebbero fatto altrettanto. In seguito alle votazioni aziendali la lista dell’Annunziata ottiene tre rappresentanti, quanto quella della CGIL.

Lo scontro sociale tra gli operai e la direzione dell’Annunziata cresce di intensità con successivi scioperi, fino ad arrivare alla tragedia del 28 maggio 1962 quando le forze di polizia, chiamate a sedare la protesta pacifica degli operai, aprono il fuoco uccidendo l’operaio Luigi Mastrogiacomo e ferendo numerose altre persone.

Le forze dell'ordine presidiano i cancelli della fabbrica (archivio l'Unità)

Le forze dell’ordine presidiano i cancelli della fabbrica (archivio l’Unità)

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Luigi Mastrogiacomo e l’articolo de l’Unità che ne annuncia l’assassinio

L’evoluzione degli stili di consumo porta, con il tempo, all’obsolescenza della saponetta per bucato, a vantaggio dei detersivi in polvere e liquidi. Lo stabilimento di Ceccano richiederebbe investimenti troppo alti per essere riconvertito alle nuove produzioni e quindi vive un lento declino che lo porta a chiudere nel 1997. Nel 1999 viene dichiarato ufficialmente il fallimento dell’azienda con il definitivo licenziamento dei 137 dipendenti.

Il marchio Scala è sopravvissuto all’azienda e dal 2003 è di proprietà della Deco Industrie che lo utilizza per saponi da bucato e prodotti cartacei.


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Ceramiche Brunelleschi

Questo stabilimento si trova nella frazione “Le Sieci”, lungo la strada aretina che collega Pontassieve a Firenze. Sorge all’interno di un’area che comprende una delle più vecchie fornaci del nostro paese.

Le prime notizie certe relative alla fornace delle Sieci risalgono al 1774: sappiamo infatti che in quell’anno essa fornì gran parte dei laterizi utilizzati per i lavori di restauro ed ampliamento del Palazzo Pretorio a Ponte a Sieve.
Si può ragionevolmente supporre però che la fornace esistesse già da qualche tempo, anche se non se ne trovano tracce documentate.
La scelta del luogo d’impianto è da mettersi in relazione essenzialmente con la vicinanza dell’Arno, da cui veniva tratta la materia prima per la “formatura” dei mattoni, che avveniva nelle “piazze dei mattonai” situate sul greto del fiume.

In origine la fornace era strettamente legata alla vita e alle necessità della vicina fattoria Albizi di Poggio a Remole cui spettava, attraverso la figura dell’agente (fattore), l’amministrazione della fornace stessa: come testimoniato per molte altre simili realtà disseminate nel territorio circostante la fornace, alimentata dalla “stipa” e dalle “fastelle” provenienti dai boschi aziendali, forniva il materiale necessario per la manutenzione della villa padronale e delle numerose case coloniche dipendenti dalla fattoria stessa, in un’ottica principalmente di auto-consumo (non si hanno notizie, se non sporadiche, di vendite di materiale).

Le oscillazioni nella produzione ed il carattere stagionale di determinate fasi della lavorazione (impasto, formatura e stagionatura dei mattoni) facevano sì che la fornace si avvalesse di mano d’opera saltuaria, con – probabilmente – l’unica eccezione di un “maestro fornaciaio”.
In quest’epoca (fine del ‘700) l’abitato delle Sieci era costituito dalle poche case situate lungo l’Arno alla confluenza del torrente Sieci, nei pressi della pescaia, mentre intorno all’antica pieve di Remole esistevano soltanto alcune case coloniche, di pertinenza anch’esse della fattoria Albizi. Come si vedrà più avanti, il passaggio della fornace ad una dimensione industriale alimentò col tempo anche lo sviluppo dell’antico borgo e la nascita dell’odierna frazione di Sieci, intorno alla fabbrica e alla millenaria pieve.

Una prova certa dell’esistenza della Fornace delle Sieci ci viene invece dalle mappe del Catasto Generale Toscano degli anni venti dell’800: a questa data il complesso risulta già articolato attorno a due fornaci: una per la produzione di laterizi e calcina e un’altra destinata alla produzione del cosiddetto “lavoro sottile”. Alla morte del marchese Amerigo degli Albizi, avvenuta il 14 gennaio 1842, e con la conseguente estinzione del ramo fiorentino della famiglia, l’intero patrimonio familiare (compresa quindi la fornace di Sieci, facente parte della fattoria di Remole) passò ad un ramo collaterale della famiglia (trasferitosi in Francia fin dal ‘400), nella persona del Cav. Alessandro. Fu il figlio di quest’ultimo, Vittorio, figura di primo piano nel panorama culturale ed economico fiorentino, ad avviare alla metà del secolo la ristrutturazione e il potenziamento della fornace, secondo principi imprenditoriali. Egli fece importare dalla Francia nuove tecnologie con le quali dette inizio alla produzione di speciali embrici di copertura in seguito chiamati “marsigliesi”, dal luogo d’origine delle maestranze specializzate. Pur rimanendo legata amministrativamente alla fattoria di Remole, la fornace si apprestava a vivere una stagione di grande fortuna, in cui non scarso peso ebbe la felice ubicazione dello stabilimento, servito non solo dalla rotabile regia Aretina ma anche dalla nuova strada ferrata Firenze – Arezzo, inaugurata nel 1862. Erano gli anni di Firenze capitale e la Fornace delle Sieci si attrezzò per soddisfare le aumentate richieste da parte del vicino mercato cittadino, cercando di accrescere e diversificare la produzione.

In relazione a questa fase di sviluppo salì ovviamente anche il numero di coloro che erano stabilmente occupati nell’impianto, che intorno al 1860 impiegava 24 addetti, cifra destinata ad aumentare negli anni successivi.
Parallelamente si verificò anche una crescita della popolazione dell’abitato delle Sieci, che ben presto poté fregiarsi di una nuova stazione ferroviaria, inaugurata il 6 settembre 1878.
Alla morte di Vittorio degli Albizi (avvenuta il 14 marzo 1877), la “fabbrica delle terre cotte posta alle Sieci” era ormai ultimata, e capace di sostenere una regolare produzione della nuova gamma di prodotti (tegole alla marsigliese e mattoni forati). La proprietà fu rilevata dalla sorella Leonia Anna, che nominò alla conduzione della fornace un dirigente tecnico, l’Ing. Leonida Budini: in quegli anni lo stabilimento moltiplicò la produzione e gli ordinativi, cosicché si resero possibili nuovi investimenti per un ulteriore ampliamento della fornace e per l’acquisto di nuovi macchinari.

Al momento della vendita della fornace da parte degli Albizi – Frescobaldi a favore della “Società autonoma Fornace alle Sieci” (1881), l’impianto funzionava ormai a pieno regime grazie ai due forni Hoffmann, dalla caratteristica forma ellittica. Il primo (risalente agli inizi degli anni cinquanta dell’800) era quello situato in prossimità della strada per Molin del Piano, sul luogo dell’antica fornace; esso utilizzava, per l’impianto dei mattoni, il materiale argilloso ricavato dalle rive del fiume (la cosiddetta “mota d’Arno”), che veniva trasportato con “barchetti” e “stagionato” a lungo; con la rena cavata dall’Arno, trasportata sempre con “barchetti”, si ricavava invece un correttivo smagrante. Vi era poi un’apposita fornace da calce alimentata da una vicina cava di calcare, anch’essa di proprietà Albizi.

Per le tegole (campigiane “modello Pelago”), la mota d’Arno veniva mescolata per metà con il galestro (complesso di argille scagliose), cavato nel bacino inferiore del torrente Vicano, e poi sminuzzato nei pressi della Fornace. Il secondo forno (finito di costruire alla fine degli anni settanta) utilizzava le stesse materie prime di quello più vecchio, ma era dotato di metodi di scavo e trasporto ben più moderni. I materiali venivano portati dal fiume in una rete di bacini di raccolta situata all’interno dell’area della fabbrica, collegati all’Arno tramite un canale. Un’idrovora convogliava le “torbide” in grandi vasche dette “margoni”, ove avveniva la decantazione, l’essiccazione e la stagionatura dei materiali argillosi. Gli impasti ottenuti venivano poi lavorati a macchina, e la produzione che se ne otteneva era assai varia. Come combustibile venivano usati generalmente la lignite (in pezzi, in frantumi, in “pule”) e la polvere di carbon fossile, proveniente probabilmente dai bacini minerari del Valdarno superiore. Agli inizi del ‘900 furono installati due motori a vapore fissi, due locomobili della forza complessiva di 140 cavalli, e 19 macchine per la produzione di laterizi; venne rinnovato anche il macchinario ausiliario e quello di officina.
A quel tempo erano impiegati nella fornace (il numero variava a seconda dei periodi dell’anno) tra gli 80 e i 120 uomini, una ventina di ragazzi e circa 30 donne.
Poco dopo gli occupati raggiunsero le 200 unità, per diventare circa 400 durante gli anni venti, che rappresentarono il periodo di massimo sviluppo della fabbrica.
In questo periodo, alla tradizionale produzione di mattoni di scarsa qualità (nel forno più antico) e di embrici alla marsigliese e torrette da camini (nel secondo forno), si aggiunse quelle delle cosiddette “tomettes”, le comuni piastrelle esagonali per pavimenti.
Negli anni trenta venne attuata una riconversione che portò allo spegnimento del vecchio forno e alla produzione sperimentale di grès rosso, mentre la gamma dei laterizi si ridusse a due soli tipi di pezzatura (5×10 e 7,5×15).

Durante la guerra, la fabbrica venne sequestrata, costretta ad interrompere ogni attività e adibita a deposito di munizioni. Gli impianti furono poi danneggiati dai bombardamenti alleati, finalizzati alla distruzione del vicino ponte ferroviario sul Sieci. Alla fine del conflitto riprese la produzione del grès, mediante l’utilizzo del vecchio forno Hoffmann.
Contemporaneamente venne avviata una ristrutturazione (conclusasi nel 1955) che portò all’utilizzo di avanzate tecnologie tedesche (presse meccaniche fornite dalla Ditta Dorst) che migliorarono la resa produttiva dell’impianto.
Furono costruiti anche nuovi capannoni, sorti sull’area delle vasche di decantazione ormai inutilizzate. Il nuovo forno a tunnel permise di aumentare la produzione e di raggiungere standard qualitativi più elevati. Ad esso si affiancò un secondo forno, con il conseguente spegnimento (1962) dell’ultimo forno Hoffmann sopravvissuto (il più recente), ormai inadeguato.
A seguito di una crisi di mercato nel settore del grès smaltato, fu intrapresa una politica di riconversione aziendale, che culminò col passaggio dello stabilimento (1976) alla Società “Ceramiche Brunelleschi”. Quest’ultima, dopo aver operato una serie di investimenti per l’acquisto di nuovi macchinari e dopo anni di studi e tentativi (non sempre fruttuosi), avviò intorno al 1980 la lavorazione del cotto smaltato, prodotto sino alla chiusura dello stabilimento. Del nucleo originario della fornace degli Albizi non rimane pressoché alcuna traccia.

La prima documentazione fotografica di cui siamo in possesso (risalente al 1920 circa) illustra l’area dell’antica fornace a seguito delle trasformazioni operate tra il 1850 e il 1880 circa; in essa sono ben riconoscibili i due forni (il primo sulla sinistra, situato nelle vicinanze del torrente Sieci, e quello più nuovo sulla destra, allineato parallelamente al corso dell’Arno), circondati da un complesso di edifici legate da rapporti funzionali (seccatoi, magazzini, vasche, ecc.).
Questa organizzazione degli impianti, che non discosta troppo da quella attuale, non subì per circa un secolo grosse modifiche: alla metà del nostro secolo, l’impianto architettonico originario delle fornaci risultava alterato soltanto per l’aggiunta di alcune tettoie (adibite a magazzini e depositi), realizzate con semplici strutture lignee. Oggi è possibile ammirare soltanto il secondo dei due forni (del primo si è conservata esclusivamente l’alta ciminiera), anche se ovviamente privato delle primitive funzioni. La facciata principale, di chiara impronta neoclassica, si caratterizza per le regolari costolature verticali che inquadrano le grandi finestre rettangolari e le aperture ad arco ribassato del pian terreno; il tutto sovrastato dall’imponente timpano triangolare, alleggerito da un semplice occhio centrale. Per quanto riguarda i materiali di costruzione, osserviamo che la pietra forte squadrata dei paramenti si alterna al cotto (occhi, architravi delle finestre) e ai mattoni sbalzati (modanature dei timpani, coronamento dei muri perimetrali, ecc.), andando a comporre un insieme di grande equilibrio formale.

Gli ampi spazi interni, che ospitavano il forno ellittico e i magazzini, sono ripartiti da altissimi pilastri in pietra. Gli altri edifici che compongono attualmente la fabbrica sono il frutto degli interventi del secondo dopoguerra, divenuti necessari a seguito delle distruzioni causate dai bombardamenti e dell’ammodernamento del ciclo produttivo: si tratta di capannoni ad un piano, con copertura a volta, e di alcune strutture puntiformi in calcestruzzo edificati (senza alcuna attenzione per i valori ambientali del contesto in cui sorgono) in luogo del più vecchio dei due forni; essi in parte utilizzano come basamento anche i muri delle antiche vasche di accumulo di argilla, in origine collegate al secondo forno.

La fabbrica, dopo il fallimento del 2011 ha chiuso definitivamente alla fine dell’anno 2012.

Le foto riportate in galleria, si riferiscono al periodo immdiatamente successivo alla chiusura; come si vede, tutto sembrava ancora pronto ad una nuova ripartenza. Nei successivi anni, tutte le attrezzature sono state rimosso e molti edifici smembrati e snaturati. Questo è bene visibile dal video seguente, trovato su Youtube.

Rimane ancora in piedi, la struttura della secolare fornace, gravemente danneggiata da anni di intemperie.

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Una foto dei primi anni del’900


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La Ferrovia dell’Alfa Romeo di Arese

Ci sarebbe da parlare per ore e ore dello stabilimento Alfa Romeo di Arese. Un vero e proprio pezzo della storia dell’automobile italiana che è stato per vari motivi cancellato con un colpo di… ruspa. Il suo ricordo vivrà nella memoria delle centinaia di persone che vi hanno lavorato e vissuto; nei filmati, nelle fotografie, nei libri. Ma è stato deciso che un centro commerciale e un mega parcheggio dovessero rimpiazzare le gloriose strutture, generatrici di meraviglie a quattro ruote, culle del vero Made in Italy. Una cosa però è rimasta:  il raccordo ferroviario che collegava lo stabilimento alle Ferrovie Nord Milano, più precisamente alla stazione di Garbagnate Milanese.

Come si legge su alfaromeo75.it:

… Dalla stazione di Garbagnate giungeva […] un binario dedicato che, aggirando l’abitato, entrava da nord est in stabilimento dietro il capannone delle presse subito dopo aver sovrastato il torrente Villoresi, faceva una curva ed andava a dividersi presso il lato nord del fabbricato della verniciatura. Quella zona, infatti, posta a ridosso dell’uscita delle vetture dal reparto di abbigliamento e vestizione finale, era destinata a stoccaggio vetture. Altro ramo del binario, invece, correva parallelo al confine nord ovest e raggiungeva, in trincea, la parte posteriore del silos, di fatto costituendo il limite fra esso e il parcheggio fornitori del costruendo centro direzionale. …

Su questa breve ferrovia transitavano quindi vagoni carichi di auto nuove appena prodotte, destinate alla rete di vendita.

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Vagoni ferrioviari carichi di nuove Giulietta

Il tratto visitato è quello che parte dalla stazione di Garbagnate Milanese per terminare al cancello sul confine nord dello stabilimento Alfa Romeo. Il tratto interno allo stabilimento e che proseguiva fino ai silos (dove sorgeva il magazzino prodotti finiti) non sappiamo se esista ancora, dato che hanno stravolto completamente l’area facendo tabula rasa. Una zona da verificare rimarrebbe quella adiacente al parcheggio visitatori, di fianco alle 3 palazzine della direzione.

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Il tracciato della ferrovia è evidenziato in giallo

Il periodo scelto è stato quello tardo autunnale quando, a livello teorico, la vegetazione spontanea è meno rigogliosa rispetto che in quello estivo. In realtà non è stato sufficiente questo accorgimento, dato che ormai la maggior parte del tracciato è una vera e propria giungla, con spinosissimi rovi e alberi di robinia a far da protagonisti. La Robinia ha spine grandi e acuminate, sia sui rami che sulla corteccia, bisogna fare davvero attenzione perchè è facile farsi male.

1a parte: Stazione Garbagnate Milanese – SP233

Scendendo lungo la Via Biscia in direzione nord, si incontra il primo elemento che fa intuire che la ferrovia è vicina: il pannello distanziometrico dei 100 metri. E’ in buono stato, a parte gli scarabocchi spray dei soliti vandali. Quello dei 50 metri è imbrattato e anche completamente arruginito. Quello dei 150 metri è irrintracciabile e probabilmente non c’è più. Da Google Maps (immagine del 2008) lo si vede ancora.

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Pannello distanziometrico dei 100 metri

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Pannello distanziometrico dei 50 metri

Pannello distanziometrico dei 150 metri (Google Street View)

Pannello distanziometrico dei 150 metri (Google Street View)

Procedendo ancora lungo la strada si arriva finalmente all’intersezione con i binari. A destra della strada la ferrovia fa la sua comparsa da sotto un cancello metallico che ci separa dai binari morti posti a nord della stazione di Garbagnate Milanese; a sinistra invece i binari spariscono in mezzo alla vegetazione.

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Il semaforo con croce di S.Andrea e campanella è sparito anch’esso, è rimasto solo il palo metallico che li sorreggeva. Anche quello posto sull’altro lato della carreggiata (direzione sud) non c’è più.

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Si inizia a seguire i binari, scavalcando la spazzatura sul bordo strada e facendosi largo tra i rami. Purtroppo dopo qualche decina di metri la vegetazione diventa un vero e proprio muro di spine, i rovi sono troppi e troppo grandi, un intreccio invalicabile. Bisogna fare dietro front e cercare di raggiungere il tracciato un po’ più avanti, camminando lungo il bordo del prato a sud.

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Si arriva al muro di cinta delle ditte della zona industriale ma non c’è modo di scendere nella trincea. Troppi alberi e rovi. Quindi non resta che fare dietro-front e tornare al punto di partenza. Sul lato nord, costeggiando la recinzione di un’abitazione, ci si riavvicina alla ferrovia tagliando diagonalmente un campo.

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Anche qui la vegetazione cresciuta sui binari è davvero fitta. Si riesce in un paio di punti a scendere in trincea e raggiungere i binari, ma per proseguire bisogna subito risalire perchè avanzare lungo il tracciato è impossibile.

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Lungo tutto il confine tra i campi e la trincea della ferrovia, ci sono dei pezzi di catenelle di plastica rossa e bianca; forse erano un modo per segnalare a chi lavora con i mezzi agricoli l’inizio della piccola scarpata.
Si arriva quindi a ridosso della rotonda stradale sulla strada SP233 “Varesina”; la ferrovia vi passa sotto, in un tunnel. Scendervi è impossibile, sempre a causa della vegetazione impenetrabile. Sporgendosi dal guard-rail è possibile intravedere attraverso i rami il tunnel, chiuso da una rete arancione e con le pareti laterali imbrattate con la vernice spray. Probabilmente in altri periodi la discesa ai binari è stata fattibile, ma è impossibile datare le opere d’arte sui muri.

2a parte: SP233 – Stabilimento Alfa Romeo

Per poter raggiungere nuovamente la ferrovia si deve scendere a sud lungo la “Varesina” fino a Via Cadore, camminare verso Ovest fino a imboccare Via Europa prima e Via Trieste poi, risalendo a Nord e poi ancora verso Ovest finchè, dopo i palazzi, c’è un varco nella vegetazione per scendere nella trincea ferroviaria. Ad accoglierci, la carcassa plastica di un carrello da supermarket, bottiglie e rifiuti vari.

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Impossibile procedere lungo i binari: dopo pochi metri c’è un muro di alberi e rovi che sbarra la strada. Risalendo il terrapieno a Nord, si segue il tracciato parallelamente e si riscende  alla prima occasione. Un passaggio abbastanza battuto arriva ai binari per poi proseguire sul terrapieno a sud, in pratica un attraversamento. Vicino alle rotaie giacciono lamierati di un camioncino Iveco e relativi tappetini di gomma, probabile residuo di qualche furto.

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Sui binari, ancora alberi e rovi. Finalmente la sede ferroviaria sale di quota emergendo dai due terrapieni e di conseguenza la vegetazione è meno fitta.

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Si riescono a vedere tratti più lunghi di ferrovia liberi dalla vegetazione.

Siamo alle spalle di un’altra zona industriale, qui i binari sono in mezzo ad erba alta, cespugli e qualche alberello fortunatamente non spinoso.

Dove i binari escono dalla vegetazione c’è il secondo passaggio a livello della ferrovia, sul confine tra Garbagnate Milanese e Lainate. A fianco della strada resiste ancora il segnale di pericolo passaggio a livello senza barriere seguito dalla croce di S.Andrea.

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I binari sono stati parzialmente coperti dalla strada sterrata, mentre verso sud, il tracciato prosegue piuttosto libero dalla vegetazione, finalmente.

Camminando sulle traversine, ci si avvicina al ponte che consente alla Strada Provinciale 109 di sovrapassare la ferrovia. Il sottopasso è completamente coperto da graffiti; bombolette spray vuote e altri rifiuti tappezzano la massicciata.

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Dopo il ponte, il percorso prosegue in linea retta, affiancando sulla destra delle proprietà private, dove dei cani abbaiano continuamente da dietro le recinzioni e sulla sinistra, più in basso rispetto al livello dei binari, dei campi coltivati. Fanno la loro ricomparsa degli alberelli sulla massicciata, ma sono abbastanza radi da permettere di procedere a zig-zag evitandoli. Purtroppo questa situazione dura poco, infatti quasi subito ci si trova di fronte un vero e proprio muro di rovi, alto più di 2 metri ! Fortunatamente qualcuno ha già tracciato un sentiero tra i rovi che, non senza qualche difficoltà, è percorribile per aggirare l’ostacolo.

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Improvvisamente la vegetazione si apre e ci si ritrova in una radura, di fianco al canale Villoresi. La ferrovia è qualche decina di metri più a est, sbuca dai rovi per salire subito sul ponte che scavalca il canale. Salendo sul ponte, si passa di fianco a un altro cartello di passaggio a livello senza barriere, piegato, scolorito e imbrattato.

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Siamo in prossimità della pista ciclabile del Villoresi dove, in occasione di Expo, sono stati piantati numerosi alberelli. Il cancellone di ingresso dello stabilimento sotto al quale spariscono i binari è stato frettolosamente dipinto di bianco. Qui purtroppo finisce l’esplorazione.

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Riferimenti in rete

I mercati generali di via Ostiense a Roma

Con il trasferimento della capitale a Roma, nel 1870, si sceglie l’area a sud della città per lo sviluppo di molte infrastrutture fondamentali. L’area viene scelta per la facile movimentazione delle merci grazie al fiume Tevere, allora navigabile sino al mare, e alla ferrovia Roma-Civitavecchia.

Numerose le attività produttive che sorgono in quest’area.

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L’area Ostiense/Testaccio oggi (2016)

Le principali sono:

  • tra il 1888 e il 1890 viene costruito il mattatoio (A), su progetto di Gioacchino Ersoch
  • nelle immediate vicinanze sorgono i laboratori conciari che ne utilizzano i pellami di scarto
  • sempre per sfruttare gli scarti del mattatoio, nel 1899 si insedia nell’area la società Colla e Concimi (C)
  • nel 1910 inizia la produzione la Fabbrica del Gas (D), utilizzando il carbone che arrivava via fiume su chiatte o via ferrovia dal porto di Civitavecchia (l’origine del carbone era l’Inghilterra). La ferrovia passava sul ponte in ferro, tuttora esistente e oggi adibito al traffico automobilistico.
  • nel 1912 vengono inaugurati i magazzini generali (B)
  • la Società Colla e Concimi viene rilevata dalla Miralanza (C) nel 1918 che inizia la produzione prima di candele e poi di detersivi, utilizzando il grasso animale proveniente dal mattatoio
  • nel 1912 viene inaugurata la centrale elettrica Montemartini (E)
  • nel 1913 iniziano i lavori per la realizzazione dei mercati generali (F), inaugurati poi nel 1922
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La “fabbrica del gas”, in una foto d’epoca, vista dalla sponda opposta del Tevere

E’ la giunta del sindaco Ernesto Nathan (in carica dal 1907 al 1913) ad individuare l’area per i nuovi mercati lungo la via Ostiense: il voto del Consiglio Comunale è del 24 giugno 1910. Il progetto originale, dello stesso anno, è di Emilio Saffi e prevede due distinte aree: una per gli erbaggi e la frutta e un’altra per le carni, le uova e il pesce. Inoltre l’area (138 mila mq) è servita dalla linea ferroviaria e, nel breve futuro, dalla linea ferrata Roma-Ostia che sarà ufficialmente inaugurata nel 1924.

Nella Rivista di Ingegneria Sanitaria e di Edilizia Moderna del 15/05/1915 troviamo una interessante descrizione del progetto del Saffi:

I lavori iniziano nel 1913 e, a causa anche dello scoppio della prima guerra mondiale, vanno molto a rilento. La prima parte viene aperta solo nel 1922 e i lavori per il completamento continuano per numerosi anni ancora.

Sino alla loro chiusura i mercati generali furono teatro di una folcloristica usanza natalizia: il Cottìo. Si trattava dell’asta del pesce che aveva luogo la notte dell’antivigilia di Natale. In tale occasione i cancelli dei mercati generali venivano aperti e i commercianti  offrivano cartocci di pesce fritto al pubblico.

L’area viene utilizzata fino al 2004 quando i mercati generali vengono trasferiti definitivamente nell’area ad est della capitale lungo l’asse della Tiburtina.

Nel 2005 l’architetto Rem Koolhas vince il bando internazionale per la riqualificazione dell’area, indetto dal Comune di Roma. Inizia così un lungo cantiere che a tutt’oggi (2016) non ha recuperato che la facciata su via Ostiense a seguito di intricate vincende.

 


Foto storiche


Gallerie fotografiche

 

Foto Pasquale Aiello


Riferimenti in rete

Il paese di Postignano

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Il paese restaurato

Postignano, frazione del Comune di Sellano in Valnerina (Umbria), e’ un borgo medioevale sorto tra il IX e il XIII secolo. Denominato anche “Castello di Postignano” è caratterizzato da un impianto triangolare nel cui vertice a monte è situata una torre esagonale, dalla quale si dipartivano le mura perimetrali.
Il Castello fu a lungo conteso tra Foligno e Spoleto e nel 1492 prese parte alla guerra tra guelfi e ghibellini.
Grazie ad una fiorente economia basata su agricoltura ed artigianato visse un periodo di splendore tra il XIV e il XV secolo, ma già a partire dal XVI secolo la popolazione cominciò a diminuire.

A causa del cedimento del terreno il borgo fu dichiarato inagibile nel 1963 e abbandonato.

Successivamente, con i terremoti del 1979 e del 1980  anche gli ultimi abitanti lo abbandonarono.

Un primo tentativo di recupero del paese iniziò nel 1996, grazie all’interessamento dell’architetto Gaetano Matacena, interrotto però dal terremoto del 1997 che devastò l’Umbria e fece crollare la torre del paese e svariate altre case. Grazie a questo crollo fu possibile rinvenire nella chiesa un affresco del ‘400. La storia di questo ritrovamento è narrata in un articolo apparso sul Messaggero on-line del 27 marzo 1998. L’articolo non è più raggiungibile ma si può leggere in questa copia salvata: Articolo_Messaggero

Affresco da restaurare

L’affresco rinvenuto

Affresco restaurato

L’affresco restaurato

Nel luglio 2007 fu ripresa l’attività di recupero degli edifici e di restauro degli affreschi, con il contributo della Regione Umbria e il sostegno dell’Amministrazione comunale di Sellano che si è conclusa nel 2014.

Affresco piccolo

Un altro affresco

 

Affresco restauro_2

Lo stesso restaurato

Nel paese è adesso presente anche un ristorante, un albergo di lusso e un centro benessere.
Da qualche anno nel paese si tiene una manifestazione culturale-folcloristica dal titolo “Un castello all’orizzonte”

Nel 1979 il fotografo e architetto americano Norman Carver Junior pubblicò il libro Italian Hilltowns sui borghi abbandonati in Italia dedicandogli la copertina del libro.

Copertina Italian Hilltowns


Galleria fotografica


Riferimenti in rete

Miniera del Morone

La miniera si trova nella frazione di Salvena, nel territorio del comune di Castell’Azzara, in provincia di Grosseto. Di seguito alcune informazioni:

Minerali presenti: Cinabro, Pirite, Realgar, Opimento, Melanterite, Alunite, Kermesite, Dawsonite, Mercurio nativo, Zolfo, Gesso, Anidride. Quarzo, Caleopirite-quarzo.
Sostanze estratte: Hg (Mercurio), Sb (Antimonio), S (Zolfo), Cu (Rame).
Descrizione naturalistica: Mineralizzazione cinabrifera posta in calcari canidriti retici; calcari nummulitici cocenici e formazioni argillose delle Liquiridi. Il giacimento si è sviluppato con disseminazioni, sostituzioni e patine intorno ai camini riempiti di argilla cinabrifera. La Stibina si ritrova associata a Gesso e Cinabro o in Quarzo. A Borghetto tracce di minerali cupriferi in ganga quarzosa.
Descrizione storica: Si tratta del giacimento minerario più noto per essere sfruttato con continuità in epoca preindustriale; vi sono stati rinvenuti arnesi in pietra ed armature ignee; il giacimento inoltre risultò sfruttato fin dove era possibile in antico, cioè fino al livello delle acque. Riaperto da Haupt nel 1873 produsse il primo minerale solo nel 1906. E attestata l’esistenza di una fornace.
Interpretazione storica: Oltre alle tracce di lavorazione di epoca preromana, disponiamo per le miniere di Selvena, di documenti medioevali che attestano lo sfruttamento da parte degli Aldobrandeschi, nel XV secolo. Biringuccio parla di una miniera di Antimonio, nei secoli XVI e XVII, è attestata anche l’estrazione del Vetriolo. La miniera di Mercurio, riaperta neI 1873, ha cessato la propria produzione nel 1985.
Epoche di sfruttamento: Preromana, Medioevale, Medicea, 1873 – 1882, 1889- 1985.

La miniera del Morone inizia l’attività produttiva il 9 gennaio 1906 quando venne acquistata dalla società mineraria Monte Amiata; prima di tale data la proprietà era della società “The Santa Fiora Mercury Limited”. Gli operai all’epoca lavoravano undici ore al giorno, con paghe bassissime, senza assistenza sanitaria e con frequenti casi di sfruttamento di manodopera giovanile. Per poter risolvere questi problemi si dovette arrivare alle grandi lotte dell’ottobre 1914 e del giugno 1919, quando i minatori reclamarono commissioni paritetiche per la composizione delle vertenze di lavoro, casse per malattie professionali, farmaci ed infermerie adeguate per la miniera, sette ore di lavoro per gli interni e otto per gli esterni. La società Amiata venne a patti novantacinque giorni dopo. Le rivendicazioni continuarono anche sotto il governo fascista, che con arroganza, prepotenza e continue discussioni creava molte difficoltà ai minatori. La conseguenza di queste proteste, purtroppo, portò alla perdita del posto di lavoro di buona parte dei quattrocento minatori tra Selvena, Castell’Azzara e Santa Fiora. Un altro grave problema di quegli anni era l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, che causarono diversi incidenti di cui due mortali. La ditta, verso la fine degli anni trenta, per aumentare la produzione di minerale introdusse un nuovo tipo di lavoro denominato “Bedaux”, il famoso “cottimo”: il minatore che riusciva a fare una maggiore produzione riceveva un salario più alto. Tutti si ribellarono a questa imposizione, che terminò solo con la chiusura della miniera nei primi anni trenta. Gli operai si trovarono a casa senza uno stipendio per poter aiutare la famiglia e nel paese ricomparve, inevitabilmente, la miseria. La miniera riaprì per un breve periodo verso la fine degli anni trenta, poiché il minerale veniva utilizzato per scopi bellici. In seguito la miniera venne nuovamente chiusa, fino al dopo guerra. Alla riapertura, gli operai lavoravano saltuariamente e si dovevano recare al lavoro a piedi o con mezzi propri; il lavoro si effettuava con arnesi manuali come la picca, la pala e il martello pneumatico. Venivano utilizzate delle maschere per la protezione dalla polvere, che si depositava nei polmoni dei minatori causando la silicosi. In seguito, per cercare di alleviare questo problema, furono usati degli aspiratori e dei martelli pneumatici ad acqua; per chi tuttavia lavorava all’avanzamento, questo non era il solo rischio a cui andava incontro: spesso si doveva fare i conti con pericolose fughe di gas e di frane che si verificavano all’interno della galleria, dal momento che si lavorava fino a centoventi metri di profondità. In queste condizioni, è facile immaginare, gli aiuti potevano risultare inefficienti.
Negli anni sessanta, per portare i minatori a lavoro, venne istituito un servizio pullman; il primo autista fu Francesco Guerrini che poi fu sostituito da Desiderio Ricciarelli. L’orario di partenza era fissato per le 5,20 al mattino e le 13,20 al pomeriggio, dal momento che gli operai lavoravano in turni di otto ore per cinque giorni alla settimana.
I minatori percepivano una paga in base alle giornate effettuate, a cui andava aggiunto il “cottimo”, il sottosuolo e altre indennità varie. Per stabilire il pagamento del “cottimo”, all’avanzamento, venivano misurati i metri fatti dagli operai a cui, i vari caposervizio incaricati di queste misurazioni, tendevano sempre a toglierne qualcuno, scatenando inevitabilmente le ire e le proteste degli operai. All’avanzamento lavoravano due operai, che avevano il compito di liberare la galleria dal materiale franato per il brillamento delle mine del turno precedente. Quando la galleria era sgombra dai detriti veniva armato un nuovo tratto, togliendo la roccia pericolante e preparando nuovi fori per altre esplosioni. Solo se il caposervizio riteneva che il lavoro diventava insostenibile per due sole unità, veniva affiancato un terzo operaio. Il materiale arrivava al Morone sia dalla miniera del Ribasso che dalle Dainelli; da quest’ultima in particolare mediante una teleferica lunga ben novecento metri. Per caricare il cinabro sui vagoni, in un primo momento si usavano le pale, poi un macchinario innovativo per l’epoca. Il minerale veniva successivamente portato a cuocere nei forni, che prendevano il nome del loro coinventore, l’ingegner Spirek, ed erano denominati forni a cupola, all’interno dei quali il cinabro cuoceva a ottocentocinquanta gradi centigradi. Questa temperatura all’inizio veniva raggiunta bruciando la legna immessa in capienti focolari, in seguito si usarono dei bruciatori a nafta, che sostituivano gli uomini in quel faticosissimo lavoro. In fondo al forno, dove il calore era maggiore, il cinabro arrostito liberava mercurio allo stato di vapore, che grazie a degli aspiratori veniva convogliato in canali di condensazione continuamente refrigerati. Da qui, colava in vasche a chiusura idraulica, nelle quali si depositava misto a tutti i prodotti della combustione. Periodicamente veniva tolta una percentuale di metallo puro, che veniva introdotto in bombole del peso di 34,5 Kg.
Nel 1970 la crisi mercurifera colpì le miniere del Monte Amiata, causando una forte diminuzione del prezzo della bombola, mentre l’anno successivo ci fu un vero e proprio crollo. La Società Monte Amiata, conseguentemente, decise lo smaltimento della miniera del Morone. Immediata fu la reazione dei minatori, che occuparono la miniera per impedire la chiusura dei forni e nel contempo per respingere i tentativi di smobilitazione della stessa. Tutte le forze politiche del Comune entrarono con maggior vigore in azione, proponendo incontri chiarificatori con i responsabili della ditta Monte Amiata e con i rappresentanti del governo. Anche la popolazione di Selvena fece sentire la sua voce: le donne intervennero con energia protestando e picchettando il piazzale antistante la miniera. I selvignani si divisero in gruppi, effettuando dei turni di quattro-sei ore, per impedire l’accesso dei camion alla miniera e il trasporto del minerale dal Morone ad Abbadia. Per sopperire al freddo pungente del periodo (eravamo a novembre), le donne si preoccuparono di accendere dei falò e nello stesso tempo pensarono anche alla distribuzione del cibo ai minatori che erano rimasti all’interno della galleria.
La ditta, vista la resistenza degli operai e della popolazione, decise di far intervenire la polizia. Quando le forze dell’ordine arrivarono sul luogo, si resero conto che la protesta aveva un fine giustificato: la salvaguardia del posto di lavoro. La contestazione rimaneva rigida ma non sfociava in atti di violenza e la sera la polizia ritornò in caserma, lasciando il disbrigo della questione tra la ditta e gli operai. In quei giorni tra i rappresentanti sindacali e quelli societari si imbastirono febbrili contrattazioni, che inizialmente non sfociarono in alcun accordo. Uble Fontani e Goffredo Fontani, che difendevano gli interessi dei minatori, uscendo da una riunione esposero agli stessi le difficoltà a cui andavano incontro per risolvere la trattativa in modo favorevole. Per esprimere ancora più marcatamente il proprio desiderio di lotta i minatori mostrarono alla Monte Amiata un cartello su cui era scritto: “Qui si cava e qui si coce”. Gli incontri tra le due parti, proseguirono fino a quando la società decise di continuare ad estrarre il minerale, una piccola vittoria che coinvolse tutta la popolazione di Selvena. La crisi mercurifera, però, appariva inarrestabile e portò ancora ad altri incontri tra le forze politiche, i sindacati e le società che si alternavano nella gestione degli impianti minerari. L’attività produttiva della miniera del Morone avvicendava dei periodi in cui tutto sembrava risolversi in maniera positiva, ad altri decisamente più critici. Si arrivò così al 1976, anno in cui la ditta decise di usufruire della cassa integrazione viste le difficoltà di vendita del mercurio. Si effettuava un lavoro di turn-over che impegnava una trentina di operai per volta; il minerale estratto era portato ad Abbadia per la fase di cottura. Si arrivò così agli anni ottanta dove ci fu una piccola ripresa del settore e per circa un anno e mezzo venne aumentata la produzione interna, ma nel 1985 si verificò il crollo irreversibile del mercurio e la miniera del Morone chiuse la sua attività definitivamente. Fino agli anni novanta qualche operaio rimase per controllare i lavori di tamponamento della galleria, dei forni e di smaltimento della miniera. Con la chiusura del Morone scomparve un pezzo importante della storia e dell’attività lavorativa di Selvena. Oggi, quando si passa davanti all’ex miniera e si guardano i ruderi arrugginiti e quelle case con le porte e le finestre murate, ritornano alla mente gli anni in cui quel posto era affollato di operai, stanchi, sporchi, ma orgogliosi di quel duro lavoro e di quella vita da minatore. L’eventualità di creare un museo minerario nel sito del Morone viene vista dagli abitanti di Selvena come una rivincita per quegli operai, che per tanti anni avevano versato sudore nella miniera.
Le informazioni riportate in questa scheda sono state tratte dal libro Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi.
Nel link successivo, una descrizione con galleria fotografica, direttamente dal sito del Parcoamiata. Nel 2002 è stato costituito il “Parco Nazionale Museo delle Miniere dell’Amiata” che tra i suoi compiti, oltre alla messa in sicurezza, il recupero dei manufatti e la tutela ambientale dei siti minerari, ha quelli non meno significativo della conservazione degli archivi, della promozione degli studi della raccolta delle testimonianze e della valorizzazione ai fini turistici del territorio del Parco.

Il video seguente mostra una interessante raccolta di fotografie storiche del paese di Selvena. Qui le famiglie, la resistenza partigiana, la miniera e la vita quotidiana si intrecciano formando un unico legame.

Foto d’epoca

Le dure condizioni di lavoro

 

Foto di gruppo

 

Gli ultimi anni di attività

Di seguito un interessante documento che accompagnava gli splosivi dalla casamatta al luogo di utilizzo:

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Galleria fotografica (foto maggio 2011)


Riferimenti in rete

Humandroid (Chappie)

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Humandroid

20152 h 00 min
Overview

Ogni bimbo viene al mondo pieno di promesse e nessuno più di Chappie: lui è un talento, è speciale, un prodigio. Come ogni bambino, Chappie verrà influenzato dagli ambienti che lo circondano, alcuni buoni affidandosi al cuore ed all’anima per trovare la sua strada nel mondo e diventare un uomo. Ma c’è una cosa che rende Chappie diverso da chiunque altro: è un robot. Il primo ed unico robot in grado di pensare ed avere sentimenti. L’idea è alquanto pericolosa ed è una sfida che metterà Chappie di fronte a potenti forze distruttive, impegnate a porre fine alla sua specie.

Metadata
Director Neill Blomkamp
Runtime 2 h 00 min
Release Date 4 Marzo 2015
Details
Movie Media
Movie Status
Movie Rating Not rated
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Molte delle scene del film sono girate all’interno della Orlando Power Station, enorme complesso industriale abbandonato a Johannesburg. Una delle particolarità del sito sono le due cooling towers interamente ricoperte di graffiti.

Ceramica Ligure Vaccari

Lo stabilimento nasce nel 1880 come fornace di laterizi, sfruttando la cava di Palanceda, nel comune di Santo Stefano Magra. La vera fabbrica fu fondata solo successivamente, con l’intervento di Stanizzi e Bonazzi. Il fallimento, purtroppo, avviene dopo poco.

La fornace a fine ‘800

Successivamente, siamo nel 1893, la società fu acquistata da Giovanni Ellena che nel 1900 fondò la Società Anonima Stabilimento Ceramiche Ellena. Tra i soci spicca il nome di Carlo Vaccari, che intuisce la potenzialità dell’azienda e dell’argilla locale.

Società Anonima Stabilimento Ceramico Ellena

CC

La fabbrica nel 1903

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Listino laterizi del 1914

Carlo Vaccari ne diventa il direttore e, a partire dal 1910, amministratore delegato. Nel 1920 la ragione sociale muta in Società Anonima Ceramiche Liguri. Sempre in questo anno, viene acquistata la società “La Fornace” di proprietà della famiglia Foltzer.

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Pubblicità delle mattonelle refrattarie

Nel 1921 entrano a far parte della società, con varie mansioni, i figli di Carlo Vaccari e la sede legale e amministrativa viene spostata a Genova. Durante gli anni trenta la fabbrica diventa la più importante produttrice di ceramiche in Italia. Nel 1938 la famiglia Foltzer abbandona la collaborazione e nel 1940 la ragione sociale si trasforma in Ceramiche Ligure Vaccari S.p.A.

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Copertina del catalogo del 1948

La fabbrica nel 1930

Zona refrattari nel 1932

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Operai nel 1932

Un inevitabile calo produttivo verrà riscontrato durante la seconda guerra mondiale, seguito da un boom economico nell’immediato dopoguerra.

La fabbrica nel 1950

Nel 1958 iniziano anche i primi scontri tra lavoratori e dirigenza, quando viene deciso lo spegnimento di un forno e il licenziamento dei 300 operai. Altri scioperi seguirono con la richiesta di adeguamenti salariali. Ulteriori problemi sorsero a causa dei villaggi operai, che non rispettavano le norme igieniche. Inoltre, l’intensificarsi dei ritmi produttivi aumentò i casi riscontrati di silicosi, che causò la morte di circa 90 lavoratori ogni anno. Lo stabilimento sarà modernizzato tra gli anni 1968/69, riportando a Ponzano gli uffici commerciali. Nel 1972 la crisi economica, unita alla scarsa capacità dirigenziale, porterà la fabbrica al fallimento. Tutti i lavoratori verranno posti in cassa integrazione, seguiranno occupazioni e un successivo intervento dello Stato (1973) per salvare lo stabilimento. La ragione sociale cambia in Eta Geri con l’occupazione di 500 operai. Nel 1974 Sicerligure subentra a Eta Geri: cambia ancora la ragione sociale in Sicerligure Vaccari S.p.A. Nel 1975 diventa Nuova Ceramica Ligure S.p.A. Nel 1976 Luciano Vaccari viene arrestato per bancarotta fraudolenta. Dal 1979 diventa azionista l’ing. Pozzoli e nel 1980 nasce la Ceramiche Vaccari S.p.A.

Locandini degli ultimi anni di produzione

Nel 1986 nasce una società collaterale, la Ceramica Ligure S.r.l. che nel 1993 rileva la Ceramica Ligure S.p.A. Nel 1997 diventa proprietà dei tedeschi Villorey e Boch e nel 2004 degli austriaci Lasselsberger. Questi ultimi, nel 2006, decidono il fermo delle attività produttive per gravi crisi economiche.

Nell’aprile del 2006 la fabbrica di Ponzano chiude definitivamente.

Questa azienda, partita come semplice fornace di laterizi, diventa negli anni famosa e rinomata per la produzione di ceramiche, apprezzate in tutto il mondo. A tale produzione si affianca anche quella di mosaici in gres porcellanato.

Proprio questo incremento della produzione rende necessaria la costruzione di un forno Hoffman, una centrale elettrica e molini per la macinazione delle argille. Si costruiscono i primi uffici e gli edifici per gli operai, che arrivano fino a 1300 unità. In seguito i forni Hoffman verranno sostituiti da quelli a tunnel, più economici e meno inquinanti.

Alcuni lavoratori all’interno del forno Hoffman

Il villaggio operaio è una delle caratteristiche che contraddistingue le più importanti aziende di inizio ‘900, nato per fornire alloggio alle maestranze venute da lontano. Il primo fu chiamato “Corte”, costruito insieme alla villa della famiglia Vaccari. Purtroppo negli anni trenta verrà distrutto, per far posto alla Chiesa e alla sua canonica.

Scolaresca nei primi del ‘900

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Maestranze di inizio ‘900

Negli anni quaranta vengono costruito nuovi edifici ed alloggi, nel viale Carlo Vaccari e altre in zona Corea negli anni cinquanta. Era presente anche uno spaccio aziendale, con zona per la lavorazione del pane, carni, frutta e merceria.

Ad opera dell’ing. Mazzocchini vengono costruite la casa dell’operaio e la palazzina della dirigenza. Nella prima si trovano spogliatoi, mensa e infermeria. La palazzina della dirigenza, ubicata all’ingresso principale dello stabilimento, ospita invece gli uffici amministrativi.

Altre foto storiche delle aree produttive:

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Macchinari

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Aree produttive

N

Aree produttive

Q

Aree produttive

Oggi, tutta l’ex area aziendale è interessata dal “Progetto Nova”, iniziativa culturale atta a recuperare e valorizzare gli spazi ex Vaccari. Nel corso degli anni sono stati organizzati concerti, mostre e altre iniziative culturali, di cui riportiamo la presentazione:

“Dal primo giorno, dopo la chiusura della Vaccari, abbiamo scelto di non far cadere la fabbrica nell’oblio, quell’oblio che accompagna, troppo spesso in Italia, i siti industriali dismessi.
Abbiamo voluto tenere i riflettori accesi sul vecchio opificio, attraverso tante iniziative, malgrado la chiusura dello stabilimento fosse stata un duro colpo per la nostra comunità e con lo stesso coraggio, oggi, nonostante la difficile congiuntura storica ed economica, vogliamo seguire esperienze internazionali che hanno raggiunto il recupero e la rivitalizzazzione di simili spazi, proprio attraverso la cultura.Al di là delle facili critiche, pensiamo infatti che investire in cultura, peraltro in un luogo in cui il legame con chi lì vive è ancora forte, significhi investire sul futuro della nostra terra.
Nessuno pensa, tuttavia, che la Vaccari possa essere solo un contenitore culturale.
Pensiamo però che in una fase nella quale è necessaria una riprogrammazione urbanistica e la definizione di strategie che possano attrarre investimenti, mantenere l’attenzione sul vecchio opificio e provare a farlo vivere, anche con nuove funzioni come quelle culturali, rappresenti una modalità innovativa per tutelare e valorizzare una risorsa così rilevante.
In questo contesto nasce NOVA, Nuovo Opificio Vaccari per le Arti, un progetto che mira a traguardare non solo la realizzazione del polo dell’economia culturale, uno dei pochi settori in cresita secondo l’ultimo rapporto ISTAT, ma la riprogrammazione urbana di tutta l’area.Parecchie migliaia di metri quadrati, oggi in comodato gratuito al Comune, sono state assegnate attraverso bandi pubblici a chi ha presentato il suo progetto e si è impegnato a realizzarlo qui, aprendo la strada a un nuovo modo di fare cultura.
Ancora negli spazi in comodato, nell’edificio all’ingresso dell’ex compendio industriale, sono inserite nuove funzioni pubbliche, dalla biblioteca all’urban center, luogo di incontro e confronto sul futuro dell’area, fino al futuro avvio di una foresteria, una residenza creativa pensata come fondamentale supporto alle varie attività che qui si insedieranno.Il progetto per l’Archivio Vaccari, inoltre, si inserisce in questo schema.
L’impegno profuso in tale direzione in questi anni unitamente ad un finanziamento regionale di ben mezzo milione di euro, ha permesso di recuperare lo stabile ex Calibratura,  acquistato dal Comune.
Il recupero della memoria di quel luogo, che ha rappresentato un pezzo di storia del lavoro di questa regione, assume un significato ancora più profondo alla luce del progetto complessivo che abbiamo in mente per quegli spazi.
I lavoratori, i materiali, i prodotti tornano protagonisti raccontando la vita ultracentenaria di una fabbrica che è stata per decenni sinonimo di eccellenza italiana nel mondo, tanto importante da cambiar il volto di una parte del nostro Comune che tutt’oggi viene chiamata la “Ceramica”.
Il passato non verrà cancellato ma, anzi, rivivrà in quegli stessi luoghi che diverranno sede di creatività diffuse e, ancora, ci auguriamo, del lavoro di tante persone.
Parlare di Nova, però non significa fermarsi al presente o al passato.
Nova rappresenta la volontà, tutta proiettata nel futuro, di riprogrammare uno spazio di oltre 180.000 mq, una vera e propria città, “nascosta” nel tessuto urbano esistente.
Si è già fatto cenno all’urban center come luogo di incontro e dialogo della comunità ma, chiaramente, non può solo un luogo fisico assolvere alle esigenze, prima di tutto progettuali, di una sfida di tali proporzioni.
Nova apre una nuova frontiera.
Un nuovo modo di fare cultura, una nuova sinergia tra Istituzione, associazioni e cittadini, una nuova strada per disegnare, insieme, il futuro della Vaccari.”

Molte delle notizie riportate sopra sono state estratte dal libro “Ceramiche Ligure vaccari” di Alice Cutullè. Al suo interno viene trattata anche la relazione tra le ceramiche Vaccari e il mondo dell’arte futurista.

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Galleria fotografica


Riferimenti in rete

Dinamitificio Nobel di Carmignano

Alle porte di Firenze, nel comune di Signa, immersi in un folto bosco, riposano i resti di una delle più importanti fabbriche di esplosivi del novecento. Tra queste verdi colline nessuno potrebbe immaginare la quantità di edifici che, nascosti dal verde, costituivano la grande fabbrica di esplosivi. La sua storia ha avuto un ruolo fondamentale per Signa e dintorni, arrivando a contare circa 4.000 lavoratori.

Di seguito, le tappe fondamentali di questa storia, ricavate dal sito della proloco Signa:

Signa ha ospitato per buona metà del Novecento una fabbrica di dinamite che ha ricoperto un ruolo centrale nell’approvvigionamento dell’Esercito Italiano durante le due guerre mondiali.

In Italia era già presente una fabbrica di dinamite ad Avigliana di proprietà delle società di Alfred Nobel, ma presentava alcuni problemi: era troppo vicina ai confini nemici, aveva vecchi macchinari ed era stata vittima di alcuni gravi esplosioni. Per questo fu deciso di costruire una nuova fabbrica in un sito che avesse migliori caratteristiche. L’ubicazione scelta era posta alla confluenza dell’Ombrone nell’Arno, nei pressi del confine con Carmignano sulla strada per Comeana. Proprio per la vicinanza con Carmignano, la sua stazione e la sua comunità che la fabbrica prenderà il nome di impianto di Carmignano anche se si trovava nel territorio di Signa.

I motivi della scelta erano molti: una relativa vicinanza delle cave di pirite della Maremma e della Val di Cecina, la lontananza dalle coste marittime, in una posizione centrale rispetto allo Stato, il facile collegamento col porto di Livorno tramite ferrovia (vicinanza con la stazione di Carmignano), le caratteristiche del luogo, isolato e circondato in buona parte dall’Ombrone che in quel punto forma un’ansa.

Il terreno, facente parte della tenuta agricola di San Momeo nella zona detta Il Pitto, fu acquistato nel 1912 e un anno più tardi iniziarono i lavori che furono imponenti: fu spostata la strada provinciale tra Signa e Comeana che transitava proprio dentro l’area prescelta per la fabbrica; fu di conseguenza costruito un nuovo ponte; venne impiantato il bosco in porzioni della collina che invece erano coltivate a vigna al fine di rendere l’impianto difficilmente individuabile dalle aviazioni militari che cominciavano a svilupparsi; furono costruiti solidissimi edifici, tracciate strade, viali e piazze, e scavate gallerie.

La produzione aveva caratteristiche esclusivamente belliche. Durante la Prima guerra mondiale, lo stabilimento produsse principalmente esplosivi per le munizioni da cannone di grosso calibro: balistite e dinamite.

Dopo la Grande Guerra la fabbrica perse d’interesse per la proprietà e fu venduta nel 1925 alla Montecatini che dieci anni più tardi acquisì anche la Società Generale Esplosivi e Munizioni con la nascita della ditta Nobel-SGEM. La Montecatini in periodo di pace utilizzò lo stabilimento anche per sperimentazioni agricole (in un’area scoperta dal bosco in riva all’Ombrone ed anche in serra) e produzioni chimiche sperimentali.

Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, invece, la fabbrica ebbe nuovamente un ruolo militare importante; riprese la produzione di esplosivi (sempre a base di nitroglicerina) e furono costruiti molti nuovi edifici e persino un trenino con piccoli vagoni che trasportava il materiale tra i vari padiglioni e poi a valle fino alla ferrovia e di cui restano alcuni tratti delle rotaie che nell’ultimo tratto risultano collocati su tralicci di cemento armato, anch’essi aggrediti dalla vegetazione, come tante altre strutture edilizie.

Nel 1944 cadde in mano ai tedeschi che iniziarono a sfruttarla; da quel momento divenne oggetto di sabotaggi da parte dei partigiani: il più clamoroso avvenne l’11 giugno e  questo è il racconto:

All’1.10 della notte dell’11 giugno 1944 la polveriera salta in aria, per l’esplosione di 8 convogli pieni di tritolo fermi alla stazione.“Non è un incidente, come la gente pensa sul momento. No, è il risultato del sabotaggio della Squadra d’Azione Patriottica, guidata da Bogardo Buricchi. Con lui, il fratello Alighiero, Bruno Spinelli , Ariodante Naldi, Lido Sardi, Mario Banci, Enzo Faraoni e Ruffo Del Guerra.
Bogardo Buricchi è nato a Carmignano. Ha 24 anni. E’ definito maestro e poeta, spirito libero, odia le ingiustizie. E’ il capo indiscusso. Suo fratello Alighiero ha appena 19 anni. Lino Sardi, abitante alla Serra, ha sempre vissuto con la famiglia Buricchi. Bruno Spinelli è il più anziano del gruppo. Ha 43 anni. E’ un ex operaio della Nobel. E’ alla sua prima azione. Mario Banci ha 22 anni. E’ nato a Genova da genitori di Carmignano. E’ entrato nella Resistenza nel dicembre del 1943, da quando è sfollato a Montalbiolo. Ariodante Naldi, 21 anni, è studente a Firenze. Ruffo Del Guerra ha 21 anni. Abita a Poggio alla Malva, dove ha conosciuto Bogardo Buricchi, il quale va a trovare il parroco frequentemente. E’ di famiglia antifascista. Suo padre è stato ridotto in fin di vita dagli squadristi.Hanno deciso di fare un’azione importante prendendo di mira i vagoni della polverificio Nobel alla stazione ferroviaria. Sono stati informati che sono carichi di tritolo. E’ sabato. Pioviggina. Si trovano davanti al bar di Poggio alla Malva. Da lì si trasferiscono alla cipresseta della Cavaccia. Bogardo Buricchi stabilisce di non procedere insieme, ma che devono andare tre da una parte e tre dall’altra, mentre lui e Naldi vanno a diritto. Sanno che i vagoni sono otto, a circa quattrocento metri dalla stazione, su un binario isolato. Sanno anche che ci sono sentinelle, che devono essere eliminate. Ma non le vedono. Non c’è nessuno. I vagoni ci sono invece. Bogardo dà il via libera. I tedeschi sono altrove. Partecipano a una festa e sono tutt’altro che lucidi.
L’operazione è semplice, dice Bogardo. In pratica c’è da accendere una miccia. Ma hanno anche una bomba a tempo. Non si sa mai. Bogardo e Ariodante entrano in un vagone. Alighiero rimane a terra. A Bruno Spinelli è stata affidata una cassa di quaranta chili di tritolo. Lui e Mario Banci devono andare alla Cavaccia per metterla al sicuro. Può servire per altre azioni. Ruffo Del Guerra fa da palo nel cipresseto. E’ lui a scorgere la lampada di Bogardo. E’ lui a vedere Bogardo e Ariodante buttarsi giù dal vagone. E un secondo dopo il bagliore accecante, l’esplosione tremenda. Cosa non ha funzionato?Enzo Faraoni e Lido Sardi hanno fatto in tempo a spostarsi. E’ scoppiato un vagone. In successione, scoppiano gli altri, si dice per simpatia. Bogardo, suo fratello Alighiero e Ariodante vengono scaraventati contro le rocce. Disintegrati, Bogardo e Ariodante. Di loro saranno trovati brandelli e la tessera ferroviaria di Ariodante. Alighiero ha pochi attimi di vita. Faraoni e Sardi finiscono lungo distesi, feriti in modo non grave. Del Guerra sviene colpito forse da un tronco. Ne ha visti volare parecchi – impietrito – neanche fosserofuscelli. Bruno Spinelli, alla Cavaccia, è investito dall’onda d’urto che fa esplodere la cassa che trasporta. Fa un volo di molti metri e va a battere la testa contro un masso. Muore poco dopo.Mario Banci è ferito, ma ce la fa a muoversi.Non si sa quanti siano le vittime tra i tedeschi. Vero è che tutti gli edifici sono stati investiti. A chi è andata bene, ha avuto il tetto scoperchiato. L’esplosione è stata sentita a Prato e a Firenze. Il che ci fa capire la potenza. Che si valuta anche dalle dimensioni del cratere provocato. Sono tali da aver messo fuori uso un bel tratto di rotaie, impedendo il passaggio dei treni per giorni e giorni.E’ l’azione più importante dei partigiani fiorentini. Il prezzo pagato, però, è salato. Vi ha perso la vita gente in gamba. Bogardo Buricchi, nonostante la giovane età, ha sempre mostrato grande maturità, coraggio. A febbraio ha organizzato lo sciopero dei contadini di Carmignano contro l’ammasso supplementare del grano (15 chilogrammi per ogni componente delle famiglie). E il 2 marzo si è reso protagonista dell’incendio dell’ufficio comunale dove erano i documenti sui raccolti. Ha beffato anche la Banda Carità, arrivata a Carmignano per mettere ordine.Una formazione di partigiani pratesi prende immediatamente il nome di Bogardo Buricchi: è quella che partecipa alla liberazione della città laniera.A tutti e quattro, il 12 giugno 1966, i popoli di Carmignano e Prato dedicano un cippo a Poggio alla Malva. E’ intitolato “E ora impara te”.

Dopo la fine della guerra le commesse statali cessarono ed iniziò il periodo di crisi che sfociò in licenziamenti di massa. Un ultimo tentativo di salvare la fabbrica fu quello di convertire la fabbrica alla produzione di fitosanitari e pesticidi. Ma ormai era destinata alla chiusura che avvenne nel 1958. Dopo che nel 1964 lo stabilimento è stato bonificato dai residui degli esplosivi e dei materiali utilizzati per la loro fabbricazione, l’area su cui sorgevano gli impianti giace inutilizzata ed è passata in mano privata.

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Il volume redatto dal Comune di Signa che tratta le azioni di gruppi partigiani della zona nel 1944

 

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Alcune pagine che trattano dell’occupazione tedesca dello stabilimento

 

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Qui, invece, descritte le azioni di sabotaggio dentro e fuori lo stabilimento. Nella foto una veduta della Nobel

 

Numerosi sono stati i progetti per riqualificare l’area, dal polo universitario a studi cinematografici. Ad oggi, niente è cambiato.

L’area è frequentata dai gestori del bosco; grazie a loro, le palazzine più vicine all’entrata sono ancora in buono stato; molte delle altre strutture, più lontane dal viale principale, sono ormai fagocitate dalla vegetazione.


Galleria di foto storiche degli impianti (da Frammenti di Memoria)

 

Nella foto sotto, scattata nel 2008, fa bella mostra di se la palazzina dei laboratori. L’edificio meglio conservato sia esternamente che internamente. Al suo interno sono ancora visibili i resti di banchi da lavoro e cappe laminari.  Ad oggi (2016) la struttura esterna è praticamente invariata.

 


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Zuccherificio di Avezzano

Nel 1897 una società italo-tedesca costruì uno zuccherificio a Monterotondo (RM) con il progetto di utilizzare le bietole che sarebbero state coltivate nei terreni della piana del Tevere, di proprietà del principe Boncompagni.

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Lo zuccherificio di Monterotondo

Nonstante la società offrisse anche degli incentivi anticipati ai coloni per promuovere la coltivazione delle bietole, pochi di loro aderirono alla proposta e lo zuccherificio si trovò in grande difficoltà per carenza di materia prima.

Fu così che si iniziò a cercare altre fonti di approvvigionamento e si arrivò ad acquistare le bietole coltivate nella piana del Fucino, Continua a leggere

Le torri dell’EUR

Il quartiere dell’EUR, a sud di Roma, venne pensato, progettato e realizzato come sede dell’Esposizione Universale del 1942, da cui l’acronimo. Realizzato negli anni 30 del secolo scorso, non fu mai terminato a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Al termine della guerra ci si ritrovò, quindi, con una monumentale opera incompiuta e le Olimpiadi del 1960 furono l’occasione per rimettere mano a quest’area. Il commissario straordinario dell’Ente EUR, Virgilio Testa, portando avanti un progetto di decentramento amministrativo della capitale, incarica un pool di architetti della costruzione della nuova sede del Ministero delle Finanze su un’area di oltre 15.000 mq. Gli architetti scelti saranno Cesare Ligini, Vittorio Cafiero, Guido Marinucci e Renato Venturi.

E’ prevalentemente Cesare Ligini ad occuparsi della progettazione della nuova sede, pensando tre alte torri affiancate da altre due costruzioni più basse. Quattro edifici comunicano tra loro con una struttura di raccordo al primo piano.

Le due costruzioni più basse ospitano, rispettivamente, la sede del Ministro con gli uffici di rappresentanza e la sede del Comando Generale della Guardia di Finanza. Le tre alte torri, invece, sono adibite ad uffici ed archivio.

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Il complesso delle torri in una cartolina d’epoca

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Il complesso delle torri in un fotogramma del film Il boom di Vittorio De Sica (1963)

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L’interno del complesso in un fotogramma del film Boccaccio ’70 (1962)

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Ancora da Boccaccio ’70 (1962) una panoramica dell’EUR presa dal Palazzo dello Sport. A destra il complesso delle torri

A seguito dello spostamento degli uffici del Ministero le torri sono rimaste in stato di abbandono sino al 2007 quando, per evitare probabilmente il sopraggiungere di vincoli storici che ne avrebbero bloccato qualsiasi trasformazione, furono interamente spogliate lasciando soltanto la struttura in cemento armato. Accanto ad esse stava sorgendo la cosiddetta Nuvola di Fuksas e una cordata di imprenditori, tra cui Fintecna e Ligresti, ottenne l’autorizzazione per finire l’abbattimento degli scheletri e costruire un maxi-condominio di lusso progettato dall’architetto Renzo Piano.

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Il complesso delle torri come appare nel 2015 nelle immagini aeree di Google maps

Le torri stavano quindi per subire lo stesso destino di un’altra importante realizzazione di Ligini all’EUR, il Velodromo Olimpico, che venne abbattuto nel 2008.

La successiva crisi immobiliare spinse gli investitori privati a ritirarsi e per anni le torri sono rimaste scheletri di cemento abbandonati a se stessi, a un passo dal grattacielo dell’ENI e dal Palazzo dello Sport, progettato da Pierluigi Nervi.

A fine 2015 iniziano i lavori di ristrutturazione per realizzare il nuovo quartier generale della Tim all’interno delle torri, ma a metà 2016 il Comune di Roma revoca i permessi e Tim si ritira riportando l’area al completo abbandono.

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La ristrutturazione in corso nel 2016: il cantiere Telecom Italia


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Lanificio di Soci

Soci è una frazione del comune di Bibbiena attraversata da un’arteria statale, la SR71. Passata la piazza della chiesa vecchia, in direzione Camaldoli, incrociamo via del Lanificio e via del Tessitore. Questi nomi, insieme ad alcuni edifici, sono ciò che resta di una grosso complesso industriale; come altri nella zona, si occupava della lavorazione della lana. Deve la sua nascita al Berignale che attraversa il paese; un canale che sin da tempi antichi, forniva energia alle gualchiere per la sodatura della lana.

La nascita del lanificio fu opera di un cittadino di Soci, Giuseppe Bocci, che nei primi dell’ottocento iniziò questa attività sino alla creazione di un grosso polo industriale. Per rendere moderno il suo lanificio, Giuseppe mandò suo figlio Sisto a lavorare in Belgio. Qui, all’epoca, erano all’avanguardia nella lavorazione dei tessuti. Sisto tornò in Italia con esperienza e macchinari moderni. Tutto questo, portò alla fine dell’ottocento, alla creazione di un complesso con circa 500 dipendenti e alla produzione di rinomati manufatti, come il famoso tessuto del casentino.

Sisto Bocci, muore nel 1915, lasciando tutto in eredità ad un nipote, Adriano, che morirà al fronte durante il primo conflitto mondiale. La famiglia Bocci, decide di vendere il lanificio ad un industraile di Brescia, Giovan Battista Bianchi. Questi, modernizza la fabbrica, ampliandone la metratura. Purtroppo, la crisi finanziaria del 1929, trascina le aziende Bianchi e con esse il lanifico, verso il fallimento. I curatori del tribunale di Milano, si accorgono del buono stato di salute dell’azienda, tanto che uno di essi, Virgilio Maranghi, ne diventa propietario. Il lanificio riesce a fatica ad attraversare la seconda guerra mondiale sino ad un inevitabile fallimento del 1956.

L’attività passa così all’industriale pratese Brachi per poi fallire definitivamente nel 1970.

Sono gli stessi operai e tecnici a costituirsi cooperativa per poter continuare l’attività. Dal 1972 la Cooperativa Tessile di Soci (questo è il nome della nuova Azienda) produce stoffe conto terzi, con reparti di filatura, cordato, filatura pettine, tintoria in fiocco, tintoria in pezze, finissaggio.

Il signor Marchesini entra alla presidenza; acquistando immobili e macchinari e lanciando il marchio “Lanificio del Casentino”. Un accordo con il Comune di Bibbiena porta alla vendita di gran parte degli edifici storici che saranno trasformati in zone commerciali e abitazioni. La parte ancora produttiva viene ampliata. Tutto questo con il contributo della Comunità Europea.

Dopo un periodo di grossa produttività, tutto si arresta con la crisi del settore tessile, sino al nuovo fallimento del 2005. Ancora una volta la situazione vine presa in mano dagli operai che costituiscono una nuova cooperativa.

Ad oggi (2015) anche questa parte di attività è cessata. Soci non ha più la sua fabbrica tessile.

Proseguono invece le vicende processuali, come riporta questo articolo della rivista “Casentino 2000” datato 17 ott 2012:

“Un buco di bilancio nato da una operazione con una società della Mongolia che serviva a risparmiare milioni di iva non versata allo stato. Da questo alla bancarotta il passo è stato breve ed ha portato l’amministratore del Lanificio di Soci Simonello Marchesini in tribunale. Durante l’udienza il pubblico ministero ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Secondo la procura aretina sarebbero state evase notevoli cifre: 4 milioni di iva, e altri 14 milioni di tributi vari. Secondo le ricostruzioni sarebbe stata messa in piedi una triangolazione con la Mongolia con una fittizia esportazione di capi dal Lanificio che in realtà non venivano mai spediti. A partire erano solamente i documenti contabili, le bolle di spedizione, mai accompagnate dall’abbigliamento. In tribunale la corte presieduta dal giudice Bilancetti è però chiamata giudicare solo la bancarotta, non compaiono infatti i reati fiscali scaturiti dalle spericolate operazioni.”

Del grosso complesso industriale di inizio ‘900, rimangono alcuni edifici ristrutturati.

Una parte, ancora originale, versa in totale stato di abbandono. Sino al 2012 era ancora possibile trovare al suo interno i vecchi macchinari tessili. Oggi, questi sono stati tutti rimossi, alcuni destinati ad essere restaurati. L’edificio ha subito ingenti danni con crolli, causati dalla neve e altre intemperie. Attività di bonifica erano in corso nell’agosto del 2015.

Resta, invece, ancora immutata, la parte interessata dall’ultimo fallimento.

Parte della storia è anche presente nel volume “L’arte della lana in casentino-Storia dei lanifici” scritto da Pier Luigi della Bordella.

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Di seguito, alcune vecchie cartoline del paese di Soci:

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Sullo sfondo le ciminiere del vecchio stabilimento

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Come si presentava l’intera area industriale ad inizio del ‘900

 


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Di seguito alcuni scatti della parte vecchia, risalenti all’agosto del 2012. Ad oggi, 2016, l’area è stata svuotata ed è in corso la bonifica


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SAVA Marghera

La società SAVA (Società Alluminio Veneto Anonima) venne costituita Il 7 dicembre 1926 dalla svizzera AIAG, la futura Alusuisse, in associazione con alcuni industriali italiani dell’energia elettrica, rappresentati da Marco Barnabò, e si divise la produzione di alluminio e allumina in duopolio con l’italiana Montecatini.

Nel 1928 venne costruito il primo impianto SAVA di Marghera sfruttando le esenzioni fiscali, la logistica del porto e la vicinanza agli impianti idroelettrici, fondamentali per garantire la grande quantità di energia richiesta dai processi di elettrolisi e fusione. Nell’immediato dopoguerra l’acronimo SAVA resta invariato ma il nome della società muta in Società Alluminio Veneto per azioni.

Lo stabilimento SAVA di Marghera Fusina, di cui ci occupiamo qui, venne costruito tra il 1962 e il 1964.

E’ del 1973 l’acquisizione della SAVA da parte dall’EFIM e del 1988 il cambio di ragione sociale in Alumix, caposettore della produzione di alluminio nel gruppo EFIM.

Nell’era EFIM le attività legate all’alluminio furono sostenute anche con i capitali della Società mineraria carbonifera sarda (Carbosarda), acquisita dall’EFIM nel 1964 e già attiva nel settore dell’alluminio con gli impianti di Portoscuso e Iglesias, in Sardegna.

Nel corso degli anni le perdite economiche (comunque coperte dallo Stato, visto che EFIM era una finanziaria del sistema delle partecipazioni statali) si fecero sempre più importanti portando alla graduale dismissione dell’impianto sino alla chiusura avvenuta nel 1991. La chiusura fu accompagnata da forti dimostrazioni degli operai, come ci testimoniano alcuni articoli di giornale dell’epoca.

Nel 2013 l’area, a seguito esproprio a fini di utilità pubblica, viene bonificata con la completa demolizione delle strutture, e riutilizzata come terminal navale.

L'area SAVA prima e dopo la riqualificazione del 2013

L’area SAVA prima e dopo la riqualificazione del 2013

L’impianto SAVA di Marghera Fusina era composto da cinque parti principali:

  • Il capannone dei forni per l’elettrolisi lungo 450 metri
  • La fonderia
  • Il silos di stoccaggio dell’allumina
  • La centrale elettrica
  • I serbatoi dell’olio combustibile per alimentare la centrale elettrica
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Planimetria della SAVA di Marghera Fusina

Capannone forni elettrolisi

La parte più affascinante dell’intero impianto era senz’altro il capannone forni, una struttura imponente in cemento armato lunga oltre 450 metri.  Nella relazione geotecnica redatta durante la fase progettuale tale edificio è così qualificato:

Il capannone forni per l’elettrolisi è di 450 m di lunghezza, di 23 metri di larghezza e di 22,50 m di altezza. […] La parte inferiore del capannone è formata da elementi di cemento armato costituenti la struttura di sostegno dei forni e della carpenteria metallica formante la parte superiore del capannone. […] La struttura trasmette dei carichi variabili tra 175 e 340 ton a piastroni posti a distanza di 9,75 m da asse ad asse.

La fonderia

L’edificio della fonderia era così composto:

La fonderia è costituita da un fabbricato dalle dimensioni di 108 m di lunghezza e 54 m di larghezza. […] Sempre in questo edificio la formazione di due forni per le macchine a colata continua ha costituito un problema di una certa delicatezza. I due forni di 17 m e di 12 m di profondità e di 2,2 m di diametro sono stati formati per sottoscavo all’interno di tubi prefabbricati a elementi sovrapponibili.

Silos allumina

Per quanto riguarda invece il silos dell’allumina, che alimenta i forni, queste le caratteristiche:

Il silo per allumina della portata di 6000 ton è a forma circolare di 23,20 m di diametro e di circa 35 m di altezza. La cella contenente l’allumina interessa però la parte alta del silo per un’altezza di circa 25 m compresa la cupola e la camera di caricamento. […] Il silo è entrato in esercizio nel dicembre 1963 contenendo mediamente  durante il periodo rilevato un carico di 3000 ton di allumina.

Centrale termoelettrica

I processi di produzione elettrolitici necessitano di una enorme quantità di corrente (non a caso la SAVA venne fondata in consocietà con importanti imprenditori dell’industria idroelettrica italiana). Per far fronte ai picchi di consumo e per compensare cali di fornitura esterna l’impianto venne dotato di una centrale termoelettrica alimentata a olio combustibile.

Il cassone principale comprende il turbogruppo, la sala quadri ed altre apparecchiature è lungo 58,15 m e largo 47,10 m. L’altro cassone di supporto della caldaia è lungo 26,48 m e largo 17 m. […] Un’altra opera di una certa entità facente parte della centrale termica è il camino. Alto 60 m è a forma di tronco di cono con diametro di base di 5,3 m e diametro di sommità di 2,90 m.

Serbatoi olio combustibile

La centrale termoelettrica era alimentata a olio combustibile immagazzinato in tre serbatoi circolari. I due principali avevano capacità di 10.000 m³ e misuravano 35,6 m di diametro e 11 m di altezza. Il terzo, da 500 m³, aveva un diametro di 8 m.


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LunEur

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C’era una volta, a Roma, il parco divertimenti più antico d’Italia la cui costruzione risale al lontano 1953. Il nome deriva dal quartiere, EUR (Esposizione Universale Romana, splendido esempio di architettura razionalista), dove il parco risiede. Le attrazioni, completamente meccaniche, cessarono l’attività nel 2008 su disposizione della prefettura di Roma per garantire la messa in sicurezza di tutta la zona. Il parco ha una estensione di circa 68.000 metri quadri, dei quali più di 50.000 sono destinati alle attrazioni che, stando agli attuali progetti e lavori di ristrutturazione (ad opera della Cinecittà Entertainment s.p.a.), dovrebbero essere destinate a bambini dai 0 ai 12 anni. Chi ha avuto la fortuna di entrare al LunEur nel periodo migliore della sua lunga storia, ovvero a cavallo degli anni ’70 e ’80, non può non ricordarlo come un po’ pacchiano e – a suo modo – decadente già allora. Purtroppo il parco non ha mai saputo rinnovarsi: solo nel 2007 vengono aggiunte alcune nuove attrazioni e si introduce un biglietto unico di ingresso, nel duplice tentativo di aumentare gli incassi e tenere lontani personaggi “indesiderabili”. Tuttavia, anche in considerazione del fatto che alcune attrazioni più “appetibili” richiedevano un supplemento, gli esercenti iniziarono ad avere diverbi sulla ripartizione degli incassi e, dopo solo un anno da questo tentativo di miglioramento, il parco chiude i battenti. Si spengono le luci e la musica, lasciando un vuoto che difficilmente verrà colmato con la nuova riapertura.

Il video seguente, girato in Super8, ci mostra come era il parco negli anni ’70:

Inoltre, curiosamente, una delle migliori attrazioni del parco, il Looping Star (montagne russe), di cui è visibile una foto (fonte www.italiaparchi.it), è stata ricollocata – mentre il LunEur era ancora in funzione – in un altro parco divertimenti di Roma, ZooMarine.

Dal momento della chiusura fino al 2012, quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione che dovrebbero terminare nella primavera del 2016 (vedi articolo), il parco è restato chiuso ed in stato di totale abbandono.


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Pantalonificio Lebole

Lebole, foto storica

Rassina è una piccola frazione nel comune di Castel Focognano, in provincia di Arezzo. Il paese è attraversato da un’arteria statale, la SR71. Percorrendo questa strada e passando dalla piazza principale, possiamo notare quel che resta di una storica fabbrica: il pantalonificio Lebole. Come capirete di seguito, oltre a rappresentare un nome storico dell’abbigliamento Made in Italy, è stata un simbolo dell’emancipazione femminile nell’area casentinese. Qui lavoravano circa 600 persone, quasi tutte donne. Moltissime ragazze, giovani o madri di famiglia, trovarono nella Lebole di Rassina e di Arezzo l’opportunità di allontanarsi da una vita rurale e di sottomissione. Ben presto questo sogno si trasformò in un incubo; i ritmi insostenibili della fabbrica, i soprusi dei superiori, il doversi dividere tra lavoro e doveri casalinghi. Nacquero così i primi moti di sciopero a cui parteciparono le classi femminili; insomma, un’azienda con tanta storia da raccontare. Partiamo dall’inizio.

Dopo aver chiesto notizie al Comune di Castel Focognano, ho ricevuto una loro gentile risposta con il documento sotto riportato:

analisi storica area ex Lebole-Moda

In queste pagine non sono riportati gli ultimi atti di questo triste declino: il gruppo Lebole si trasforma poi in conpartecipazione statale diventando parte del gruppo Eni. Le difficoltà dovute alla crisi del settore e una gestione scellerata da parte di un ente che aveva solo il compito di inglobare aziende sull’orlo del fallimento; portarono all’indispensabile vendita a privati. Vince l’asta il colosso dell’abbigliamento Marzotto. Un susseguirsi di ridimensionamenti, a tutti i livelli, hanno portato alla chiusura definitiva dello stabilimento di Rassina nel luglio 1998.
Nel 2010 faceva bella mostra di se, sulla facciata principale, un cartello che dichiarava l’imminente realizzazione di appartamenti. I lavori sono iniziati nel 2012, portando alla demolizione di gran parte degli edifici per poi arrestarsi, causa la mancanza di fondi. La situazione rimane immutata fino alla fine del 2015.

Di seguito, un video tratto dalla trasmissione “Sportello Reclami”. Un consigliere del comune, spiega e mostra l’attuale stato di ciò che rimane della ex Lebole:

Una bella testimonianza di quanto abbiamo raccontato finora è rappresentata dal libro “La confezione di un sogno”, “La storia delle donne della Lebole” di Claudio Repek. Quarantasei testimonianze raccolte tra operaie, impiegati, dirigenti d’azienda e del sindacato che furono impiegati alla Lebole.

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Di seguito una pagina del libro che ci fa chiaramente capire le dure condizioni di lavoro nello stabilimento di Rassina:

Per concludere la storia di questo importante stabilimento, nel sito della Confederazione Associazioni Italiane Parkinson e Parkinsonismi (ONLUS), si legge quanto segue:

“Cinque ex dipendenti dello stabilimento Lebole di Rassina (AR) sono malate di Parkinson e i loro casi sono allo studio di un pool di medici. Si sospetta che possa esservi un collegamento con certi tessuti con coloranti, polveri e sostanze nocive con i quali sono venute a contatto in fabbrica.

Una richiesta per il riconoscimento della malattia professionale è stata inoltrata all’Inps, ma l’ente ha risposto chiedendo un riscontro scientifico. L’iter è ancora in una fase preliminare e si dovrà stabilire se si tratta di una coincidenza o se esiste davvero un nesso di causa ed effetto.

Intanto una delle malate di Parkinson, che ha 65 anni, lancia un appello alle ex colleghe, anche a quelle che hanno lavorato ad Arezzo, affinché segnalino, se esistono, casi analoghi. Un medico legale di Siena visiterà gratuitamente le ex “leboline”. A seguire la questione dalla parte delle ex lavoratrici è il patronato Acli. “


 
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Lanificio di Stia

Lanificio Stia

Nonostante un clima generale di miseria e arretratezza economica, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo, grazie al motu proprio di Francesco III di Lorena che liberalizzava la produzione e il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano, per secoli monopolizzati dall’Arte della lana fiorentina.
Nel giro di qualche decennio, l’esercizio dell’arte della lana cominciò ad innovarsi, trasformandosi da artigianale a più moderna attività imprenditoriale, per merito in particolare della famiglia Ricci, che acquisì e riorganizzò vari opifici preesistenti tra loro vicini, e dei fratelli Beni.
Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive, come avveniva già da diversi decenni nei paesi europei più evoluti.
La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia, oltre alla Mazzoni di Prato, furono i primi lanifici toscani ad introdurre le macchine, importate dall’estero. Questo valse loro la visita del granduca Leopoldo II nel 1838, mentre la qualità dei loro prodotti fece meritare una medaglia d’oro alla Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano.
Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia.
Nei primi anni 60, grazie all’apporto di capitale da parte di altri soci, il lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici vicini ma staccati. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti.
All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.
Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.
Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867.

Con i figli di Adamo il lanificio fallì e cessò la conduzione, durata più di un secolo, della famiglia Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 da una società costituita dai principali creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi di proprietà della famiglia Lombard.

A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come “maestro” il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi.
Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani.
Fece realizzare un condotto, scavato nella collina, per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio.
Sotto la sua direzione il complesso edilizio del lanificio raggiunse la configurazione attuale.
Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918, quando il lanificio era all’apice del suo prestigio: fornitore ufficiale di Casa Savoia e al più alto livello di occupazione, con 500 operai, circa 136 telai e una produzione di oltre 700.000 metri di stoffa.

Nel periodo fra le due guerre il lanificio di Stia resse la concorrenza, ma, dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli, nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export che, nel 1985, fallì.
Nonostante i tentativi di ripresa, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il lanificio non riuscì a ripartire con l’attività e venne definitivamente chiuso nel 2000.


Galleria foto storiche

Gran parte del lanificio è stato ristrutturato e destinato ad ospitare un museo permanente sul panno casentinese e la sua lavorazione. All’interno fanno bella mostra di se molti dei macchinari che vediamo nelle foto storiche, perfettamente restaurati.

Di seguito, una veduta dell’entrata del museo:

Stia ingresso

Stia ingresso

In un’altra ala, sono presenti spazi espositivi, destinati ad ospitare mostre di vario genere.

Alcuni locali, siti al piano terra, sono adibiti a negozi. Qui si vendono manufatti confezionati con il famoso panno casentinese.

Un’altra ala rimane, ad oggi, ancora in attesa di essere ristrutturata. Di seguito la situazione di questi locali ad agosto 2015:


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Riferimenti in rete

Società Anonima Serio

Nel 1932 sette operai della SAID (Societa’ Anonima Industrie Dattilografiche di via Friuli a Milano) decidono di investire 82.000 lire sul proprio futuro e acquistano a Crema (CR) un vecchio stabilimento dismesso, tra via del Mulino e viale Santa Maria della Croce, dove venivano prodotti chiodi per ferri di cavallo. Fondano, lo stesso anno, la Società Anonima Serio e iniziano a produrre macchine da scrivere.

Il primo modello di grande successo, nel 1934, è la Everest 42 che è anche la prima macchina da scrivere al mondo ad adottare una tastiera su quattro file (invece di tre come in uso sino ad allora), definendo così uno standard che sarà universalmente adottato da tutti i produttori del mondo.

Nel 1940 la Serio (ormai conosciuta come Serio Everest grazie alla popolarità della sua 42) conta 509 operai, 26 impiegati, 63 agenzie di vendita in Italia, e un indotto costituito da alcune centinaia di meccanici aggiustatori.

Nel 1950 la produzione si estende, oltre alle macchine da scrivere, anche alle addizionatrici elettriche a tre operazioni.

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La mensa della Serio nel 1950

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Nel 2011

Alla fine degli anni ’50 inizia una fase di stagnazione dovuta alla scarsa volontà della proprietà di investire nel rinnovamento degli impianti e si giunge, nel 1960, all’acquisizione da parte della Olivetti. Per alcuni anni nulla cambia e la Serio continua a produrre autonomamente la propria linea di prodotti. E’ solo nel 1969/70 che il marchio Serio sparisce per sempre e la produzione diviene interamente Olivetti, con la costruzione di un nuovo impianto poco distante, in via Bramante. Oltre alla costruzione dello stabilimento la Olivetti crea una era e propria piccola città nella città con alloggi e facilities destinate agli operai, nello stile del compianto Adriano Olivetti morto nel 1960.

Con la nascita del nuovo stabilimento, l’impianto di via Molino viene prima convertito in magazzino e poi lentamente abbandonato.

Nel 1970 l’Olivetti conta, a Crema, 3150 lavoratori. Il polo progettuale e produttivo rimane all’avanguardia per molti anni ancora arrivando, nel 1978, alla progettazione e produzione della ET 101, prima macchina da scrivere elettronica al mondo.

Oltre allo stabilimento di via Molino, oggetto di questa scheda e ad oggi – 2015 – ancora abbandonato , anche quello di via Bramante sarà chiuso definitivamente nel 1992.

Attualmente l’area ex Olivetti di via Bramante ospita una serie di piccole imprese e il Dipartimento di informatica dell’Università di Milano.


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Riferimenti in rete

La chiesa di San Vittorino

Siamo in una pianura lunga circa quattro chilometri e larga due, posta tra le pendici meridionali del Terminillo e quelle della catena del monte Velino, dove l’erosione carsica si mostra con una imponenza che secondo il grande geografo Riccardo Riccardi, non ha eguali in Italia.
E’ qui che il Velino cresce notevolmente ricevendo le acque delle sorgenti di Canetra ancor prima di accedere nella piana di S. Vittorino da dove, subito prima di uscirne, vi si immettono quelle del Peschiera.
Il sottosuolo di questa area è formato da una stratificazione di calcarei cretacei su cui si poggia un vasto basamento travertinoso, mentre la parte superficiale è costituita da terreni alluvionali formati da ghiaie, sabbie e argille.
Tutta la zona e interessata da numerosissime sorgenti mineralizzate, segni eloquenti di una vasta circolazione di acque sotterranee che esercitano una forte azione corrosiva del basamento travertinoso sottostante, indebolendone lo spessore e formando delle vaste cavernosità che sono alla base dei continui sprofondamenti della parte superficiale del territorio.
E’ in tal modo che sono nati i laghi di Paterno, del Pozzo di Mezzo e del Pozzo Burino, ma anche i numerosi altri piccoli bacini, ed è in questa stessa condizione strutturale che va addebitato lo stato in cui si trova la Chiesa di San Vittorino, progressivamente sprofondata su un’area sorgiva le cui acque sommergono tutta la navata creando una immagine di grande suggestione.

 dal sito del Comune di Cittaducale

La zona della piana di San Vittorino, martire cristiano del I secolo, è ricca di sorgenti; in mezzo a due di queste nel 1300-1440 fu eretta una chiesa sui resti di un tempio pagano dedicato alle Ninfe dell’acqua.
Tra il 1608 e il 1613 la chiesa fu ristrutturata ed ampliata e dedicata alla Madonna. Prese quindi il nome di Santa Maria di San Vittorino. Era composta da una monumentale facciata e tre navate; la principale con l’abside e l’altare e le altre due con dipinti.
Divenne la più importante del circondario di Cittaducale e fu una frequentata meta di pellegrinaggio.
Nel 1800 a seguito di movimenti tellurici le vene delle due sorgenti si spostarono e andarono a situarsi sotto la chiesa che fu presto allagata. L’acqua usciva dal portale principale e andava a sfociare nel vicino Velino.
La sorte della chiesa fu segnata e presto cominciò a sprofondare.

Nel 1983 la chiesa pur rovinata era ancora visitabile e Andrej Tarkovskij vi girò una scena del film Nostalghia (vedi recensione).

Da allora la chiesa ha continuato a sprofondare, la sorgente si e’ quasi prosciugata e la vegetazione ha invaso l’interno.

Della chiesa sono rimasti, conservati nella cattedrale di Cittaducale, una Annunciazione trecentesca in bassorilievo ed un fonte battesimale sempre trecentesco di squisita fattura.

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La chiesa vista dalla strada

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Un interno

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