Società Anonima Lanificio Calamai

Lanificio Calamai

La fabbrica si trova a Prato, nel quartiere di San Paolo, oggi immersa in altre realtà industriali ed edifici civili. Delle due ciminiere, rimane il mozzicone di una, l’altra è stata abbattuta.  Di seguito la storia della fabbrica e del suo fondatore.

Qui sotto il confronto tra la foto satellitare attuale e una veduta storica dello stabilimento. Si vedono i vari cambiamenti subiti, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Inoltre, si nota, come sia stata inglobata nel tessuto urbano odierno.       

Brunetto Calamai, nato a Prato il 5 aprile del 1863 da Giosuè e da Luisa Bini, comincia a lavorare giovanissimo nell’industria laniera. Interrotti gli studi a tredici anni per motivi di salute, nel 1878, appena quindicenne, inizia l’attività industriale con la lavorazione della lana meccanica, introdotta nell’industria pratese fra il 1850-51, e divenuta in breve tempo una produzione caratteristica della zona. Questa prima fase dell’attività del Calamai si svolse in un piccolo stabilimento con appena dieci operai: “La Polveriera” di proprietà dei conti Bardi, in località San Quirico di Vernio.

Solo sei anni più tardi l’impresa subisce una prima trasformazione con il trasferimento della lavorazione a Prato, nel lanificio “Le Vedove”, dove viene installata una piccola filatura per la lana greggia che consente di realizzare l’intero ciclo produttivo. Negli anni immediatamente successivi all’introduzione della tariffa doganale del 1887 il Calamai compie un altro passo nell’ampliamento della sua impresa. Nel 1891, infatti, acquistato un vecchio mulino già adibito alla lavorazione della canapa – “Il Maceratorio”, con un impianto di circa 2.000 mq – lo trasforma in lanificio e ne amplia le strutture giungendo ad impiegare 150 operai.

Nello stesso anno importa ed installa nello stabilimento il selfacting, il primo filatoio interamente automatico impiegato dall’industria laniera di Prato. Il ciclo completo di lavorazione di tutti i tessuti, comprendente carbonisaggio e sfilacciatura, cardatura, filatura, tessitura, follatura, tintura e rifinizione, venne raggiunto fra il 1905 ed il 1922 con un costante ammodernamento degli impianti e delle strutture produttive ed il progressivo aumento di manodopera, che raggiunge le 500 unità.

Convinto che i particolari metodi di produzione dell’industria laniera di Prato debbano essere protetti con criteri e sistemi più diretti e specifici di quelli adottati dall’Associazione dell’Indutria laniera italiana, nel 1897 fonda insieme ad altri noti industriali del ramo, quali Raimondo Targetti ed Alceste Cangioli, l’Associazione dell’arte della lana di Prato, seguita a breve distanza di tempo dall’istituzione di una Scuola pratica di commercio. All’Associazione fu inoltre attribuito fin dalla fondazione il compito di dirimere le eventuali controversie sindacali; funzione che ebbe occasione di espletare per la prima volta nel 1900.

Le fasi della costruzione di alcuni capannoni

Il Calamai è tra i primi industriali di Prato a trattare con il mercato estero e il primo, nel 1902, ad occuparsi dei problemi connessi all’esportazione; problemi che ritiene possano essere opportunamente risolti con la costituzione di un sindacato per la vendita del prodotto locale. Il livello produttivo raggiunto gli vale riconoscimenti in campo nazionale ed internazionale: nel 1911 riceve il Grand Prix all’Esposizione internazionale di Torino; nel 1918 la medaglia d’oro all’Esposizione dell’industria toscana tenuta a Firenze; nel 1925 la medaglia d’oro della città di Firenze e il Grand Prix del comitato all’Esposizione internazionale di Firenze.

Si interessa ai problemi sociali e dell’istruzione popolare, istituendo nel suo lanificio una scuola per l’istruzione elementare degli operai e dei loro figli. Sostiene la funzione primaria dell’istruzione tecnica – che ritiene fondamentale per una città a sviluppo prevalentemente industriale – occupandosi del locale istituto tecnico e dell’istituto commerciale Nicastro. Ricopre per circa quaranta anni la carica di consigliere dell’istituto industriale T. Buzzi. Nel 1907 si fa promotore di una società cooperativa per la costruzione di case per gli impiegati e gli operai del suo stabilimento (progetto che venne realizzato pienamente nel 1937), e fonda una società di mutuo soccorso e di assistenza civile per gli operai. Crea inoltre nella sua fabbrica il primo gruppo aziendale dopolavoristico pratese. Durante il conflitto 1915-1918 il lanificio viene mobilitato, e il Calamai fa parte del Comitato di mobilitazione industriale istituito nel capoluogo toscano. Cavaliere del lavoro fin dal 1910, nel 1923 possiede la tessera ad honorem del partito fascista. Ad essa seguì, nel 1935, la nomina a commendatore della Corona d’Italia. Fra le cariche ricoperte c’è quella di consigliere della Camera di commercio – che mantiene per circa trent’anni – e quella di rappresentante del Consiglio provinciale fascista dell’economia. Inoltre, fin dalla più giovane età, è consigliere ed assessore del comune di Prato, consigliere e quindi presidente della deputazione ospitaliera, consigliere della Cassa di Risparmio, del Monte di Pietà, della R. scuola Pacinotti di Pistoia. Muore a Prato l’11 febbraio 1936.

Nel 1922, infine, la ditta – che aveva fino ad allora portato il nome del suo fondatore – viene trasformata in “Società anonima Lanificio Calamai”, di cui il Calamai resta presidente fino alla morte. Nomina come amministratore suo figlio Corradino. Nel 1927 la fabbrica occupa 28.000 metri quadrati dei quali 22.500 coperti. Nel 1930 si rende necessario un nuovo ampliamento per realizzare una tintoria e un nuovo magazzino. L’intervento è progettato da Pier Luigi Nervi che realizza una copertura con capriate rialzate in cemento armato su pilastri, tenendo le travi molto distanti tra loro e realizzando così una copertura molto leggera.

La tintoria, nello spazio progettato da Nervi

La tintoria, nello spazio progettato da Nervi

Nei link il riferimento dell’associazione “Tuscan Art Industry”: Il progetto dell’associazione SC17 nasce nel corso dell’anno 2015 e si presenta come un laboratorio di ricerca che coinvolge artisti, curatori, fotografi, musicisti e performer a lavorare in sinergia all’interno dei siti di archeologia industriale in Toscana. Una importante iniziativa con la quale vengono rivalutati e riscoperti ex ambienti di lavoro, sensibilizzando le amministrazioni e la comunità alla salvaguardia di queste memorie storiche e sociali.


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Lanificio di Soci

Soci è una frazione del comune di Bibbiena attraversata da un’arteria statale, la SR71. Passata la piazza della chiesa vecchia, in direzione Camaldoli, incrociamo via del Lanificio e via del Tessitore. Questi nomi, insieme ad alcuni edifici, sono ciò che resta di una grosso complesso industriale; come altri nella zona, si occupava della lavorazione della lana. Deve la sua nascita al Berignale che attraversa il paese; un canale che sin da tempi antichi, forniva energia alle gualchiere per la sodatura della lana.

La nascita del lanificio fu opera di un cittadino di Soci, Giuseppe Bocci, che nei primi dell’ottocento iniziò questa attività sino alla creazione di un grosso polo industriale. Per rendere moderno il suo lanificio, Giuseppe mandò suo figlio Sisto a lavorare in Belgio. Qui, all’epoca, erano all’avanguardia nella lavorazione dei tessuti. Sisto tornò in Italia con esperienza e macchinari moderni. Tutto questo, portò alla fine dell’ottocento, alla creazione di un complesso con circa 500 dipendenti e alla produzione di rinomati manufatti, come il famoso tessuto del casentino.

Sisto Bocci, muore nel 1915, lasciando tutto in eredità ad un nipote, Adriano, che morirà al fronte durante il primo conflitto mondiale. La famiglia Bocci, decide di vendere il lanificio ad un industraile di Brescia, Giovan Battista Bianchi. Questi, modernizza la fabbrica, ampliandone la metratura. Purtroppo, la crisi finanziaria del 1929, trascina le aziende Bianchi e con esse il lanifico, verso il fallimento. I curatori del tribunale di Milano, si accorgono del buono stato di salute dell’azienda, tanto che uno di essi, Virgilio Maranghi, ne diventa propietario. Il lanificio riesce a fatica ad attraversare la seconda guerra mondiale sino ad un inevitabile fallimento del 1956.

L’attività passa così all’industriale pratese Brachi per poi fallire definitivamente nel 1970.

Sono gli stessi operai e tecnici a costituirsi cooperativa per poter continuare l’attività. Dal 1972 la Cooperativa Tessile di Soci (questo è il nome della nuova Azienda) produce stoffe conto terzi, con reparti di filatura, cordato, filatura pettine, tintoria in fiocco, tintoria in pezze, finissaggio.

Il signor Marchesini entra alla presidenza; acquistando immobili e macchinari e lanciando il marchio “Lanificio del Casentino”. Un accordo con il Comune di Bibbiena porta alla vendita di gran parte degli edifici storici che saranno trasformati in zone commerciali e abitazioni. La parte ancora produttiva viene ampliata. Tutto questo con il contributo della Comunità Europea.

Dopo un periodo di grossa produttività, tutto si arresta con la crisi del settore tessile, sino al nuovo fallimento del 2005. Ancora una volta la situazione vine presa in mano dagli operai che costituiscono una nuova cooperativa.

Ad oggi (2015) anche questa parte di attività è cessata. Soci non ha più la sua fabbrica tessile.

Proseguono invece le vicende processuali, come riporta questo articolo della rivista “Casentino 2000” datato 17 ott 2012:

“Un buco di bilancio nato da una operazione con una società della Mongolia che serviva a risparmiare milioni di iva non versata allo stato. Da questo alla bancarotta il passo è stato breve ed ha portato l’amministratore del Lanificio di Soci Simonello Marchesini in tribunale. Durante l’udienza il pubblico ministero ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Secondo la procura aretina sarebbero state evase notevoli cifre: 4 milioni di iva, e altri 14 milioni di tributi vari. Secondo le ricostruzioni sarebbe stata messa in piedi una triangolazione con la Mongolia con una fittizia esportazione di capi dal Lanificio che in realtà non venivano mai spediti. A partire erano solamente i documenti contabili, le bolle di spedizione, mai accompagnate dall’abbigliamento. In tribunale la corte presieduta dal giudice Bilancetti è però chiamata giudicare solo la bancarotta, non compaiono infatti i reati fiscali scaturiti dalle spericolate operazioni.”

Del grosso complesso industriale di inizio ‘900, rimangono alcuni edifici ristrutturati.

Una parte, ancora originale, versa in totale stato di abbandono. Sino al 2012 era ancora possibile trovare al suo interno i vecchi macchinari tessili. Oggi, questi sono stati tutti rimossi, alcuni destinati ad essere restaurati. L’edificio ha subito ingenti danni con crolli, causati dalla neve e altre intemperie. Attività di bonifica erano in corso nell’agosto del 2015.

Resta, invece, ancora immutata, la parte interessata dall’ultimo fallimento.

Parte della storia è anche presente nel volume “L’arte della lana in casentino-Storia dei lanifici” scritto da Pier Luigi della Bordella.

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Di seguito, alcune vecchie cartoline del paese di Soci:

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Sullo sfondo le ciminiere del vecchio stabilimento

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Come si presentava l’intera area industriale ad inizio del ‘900

 


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Di seguito alcuni scatti della parte vecchia, risalenti all’agosto del 2012. Ad oggi, 2016, l’area è stata svuotata ed è in corso la bonifica


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Lanificio di Stia

Lanificio Stia

Nonostante un clima generale di miseria e arretratezza economica, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo, grazie al motu proprio di Francesco III di Lorena che liberalizzava la produzione e il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano, per secoli monopolizzati dall’Arte della lana fiorentina.
Nel giro di qualche decennio, l’esercizio dell’arte della lana cominciò ad innovarsi, trasformandosi da artigianale a più moderna attività imprenditoriale, per merito in particolare della famiglia Ricci, che acquisì e riorganizzò vari opifici preesistenti tra loro vicini, e dei fratelli Beni.
Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive, come avveniva già da diversi decenni nei paesi europei più evoluti.
La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia, oltre alla Mazzoni di Prato, furono i primi lanifici toscani ad introdurre le macchine, importate dall’estero. Questo valse loro la visita del granduca Leopoldo II nel 1838, mentre la qualità dei loro prodotti fece meritare una medaglia d’oro alla Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano.
Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia.
Nei primi anni 60, grazie all’apporto di capitale da parte di altri soci, il lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici vicini ma staccati. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti.
All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.
Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.
Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867.

Con i figli di Adamo il lanificio fallì e cessò la conduzione, durata più di un secolo, della famiglia Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 da una società costituita dai principali creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi di proprietà della famiglia Lombard.

A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come “maestro” il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi.
Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani.
Fece realizzare un condotto, scavato nella collina, per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio.
Sotto la sua direzione il complesso edilizio del lanificio raggiunse la configurazione attuale.
Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918, quando il lanificio era all’apice del suo prestigio: fornitore ufficiale di Casa Savoia e al più alto livello di occupazione, con 500 operai, circa 136 telai e una produzione di oltre 700.000 metri di stoffa.

Nel periodo fra le due guerre il lanificio di Stia resse la concorrenza, ma, dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli, nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export che, nel 1985, fallì.
Nonostante i tentativi di ripresa, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il lanificio non riuscì a ripartire con l’attività e venne definitivamente chiuso nel 2000.


Galleria foto storiche

Gran parte del lanificio è stato ristrutturato e destinato ad ospitare un museo permanente sul panno casentinese e la sua lavorazione. All’interno fanno bella mostra di se molti dei macchinari che vediamo nelle foto storiche, perfettamente restaurati.

Di seguito, una veduta dell’entrata del museo:

Stia ingresso

Stia ingresso

In un’altra ala, sono presenti spazi espositivi, destinati ad ospitare mostre di vario genere.

Alcuni locali, siti al piano terra, sono adibiti a negozi. Qui si vendono manufatti confezionati con il famoso panno casentinese.

Un’altra ala rimane, ad oggi, ancora in attesa di essere ristrutturata. Di seguito la situazione di questi locali ad agosto 2015:


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