Manifattura Tabacchi Firenze

Lo stabilimento della Manifattura Tabacchi, situato nei pressi del parco delle Cascine a Firenze, viene costruito in sostituzione dei vecchi impianti collocati presso l’ex convento di Sant’Orsola e della chiesa sconsacrata di San Pancrazio.

Realizzato tra il 1933 e il 1940, ad opera di Pier Luigi Nervi e Giovanni Bartoli, lo stabilimento si estende su di una superficie di 6 ettari, comprende 16 edifici per un totale di 100.000 metri quadrati.

Il complesso è caratterizzato da una serie di edifici a planimetria e volumetria compatte, connotati da un inconfondibile stile razionalista. Il corpo della palazzini uffici e direzione è rivestito completamente in travertino.

Sull’entrata principale fanno bella mostra di sé dei bassorilievi raffiguranti la lavorazione del tabacco, opera di Francesco Coccia.

Faceva parte dello stabilimento anche il teatro Puccini, opera pregevole che ricorda l’architettura dello stadio fiorentino, progettato dallo stesso Nervi. Il teatro, nato come dopolavoro, è attualmente in uso per vari tipi di spettacoli.

All’epoca dell’edificazione nell’impianto operavano oltre 1.400 addetti, distribuiti a seconda dei ruoli nelle tre principali aree; il complesso comprendeva, tra gli altri spazi, anche le sale di maternità per le maestranze femminili.

La fabbrica  era servita direttamente dalla rete ferroviaria che, dalla stazione Leopolda, arrivava  fin dentro lo stabilimento.

Nella Manifattura Tabacchi di Firenze sono nate le famose sigarette MS, acronimo di Messis Summa (in latino “miglior raccolto”) che ricordava anche Monopoli di Stato e, nella cultura popolare, ironicamente, “Morte Sicura”.

MS

Oltre a queste note sigarette venivano prodotti i famosi sigari Toscani la cui storia è legata ad un aneddoto: sembra che nel 1815, quando la sede della Manifattura Tabacchi era presso l’ex convento di Santa Caterina, un improvviso acquazzone bagnò i barili di tabacco stoccati nel cortile. Tutta questa materia prima, diventata maleodorante, doveva essere destinata alla distruzione. Per limitare il danno economico, fu deciso di fare un prodotto di scarto dal basso costo, destinato al popolo. Nasce così il sigaro toscano, dalla forma sgraziata ma dal sapore particolare dovuto alla fermentazione. Ottiene talmente successo da diventare uno dei prodotti di punta della Manifattura Tabacchi di Firenze.

Lo stabilimento è rimasto in funzione fino a tempi recenti, chiudendo definitivamente la produzione nel 2001.

Ad oggi l’area è stata acquistata da una società privata e viene affittata per eventi. Non si esclude una riqualificazione a scopo abitativo.


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Zuccherificio di Granaiolo

Questo zuccherificio si trova nel comune di Castelfiorentino; inizia la sua attività nel 1899 e chiude con la sua ultima campagna nel 1971. La società che lo gestiva era la Società Italiana Industria Zuccheri con sede a Genova. Gran parte delle campagne circostanti erano coltivate a barbabietola, ed erano irrigate utilizzando l’acqua del fiume Elsa. Sembra che grazie alla bontà di queste acque lo zucchero di Granaiolo fosse particolarmente apprezzato, tanto da essere preferito anche dallo Stato Vaticano. La stessa acqua del fiume, tramite grosse pompe, veniva utilizzata come mezzo di trasporto per il passaggio dei vegetali dai bacini all’interno dello zuccherificio.

Nei primi anni di produzione, il trasporto della barbabietola avveniva unicamente su carri trainati da buoi; solo successivamente, verranno utilizzati camion o vagoni ferroviari attraverso la vicina linea ferroviaria.

La campagna di lavorazione durava dai tre a quattro mesi. In questo periodo gli operai lavoravano a ciclo continuo su tre turni; questo per garantire che il lavorato non si solidificasse andando a danneggiare irremediabilmente i macchinari. Vi lavoravano numerose persone appartenenti ai paesi limitrofi del territorio e spesso anche gli stessi coltivatori di barbabietola. Durante il resto dell’anno, circa settanta persone lavoravano come manutentori degli impianti.

In questo stabilimento si otteneva zucchero in cristalli o in zollette. La melassa, sottoprodotto della lavorazione era destinata all’industria dolciaria. Le fettucce, scarto della lavorazione, erano adibite a mangime per animali.

Nel comprensorio dello stabilimento, esisteva un attrezzato laboratorio chimico, la palazzina del direttore e alcune abitazioni per i dipendenti. Esisteva anche un magazzino di stoccaggio di cui oggi rimane solo lo scheletro in ferro.

Dopo quasi un secolo durante il quale a generato ricchezza per l’area di Granaiolo e dintorni, lo zuccherificio è stato costretto a chiudere a causa dei metodi di lavorazione non più aggiornati e concorrenziali.


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Società per Azioni Fratelli Del Magro

I resti della fabbrica Del Magro sorgono appena fuori dall’abitato storico di Pescia nella via Mammianese. La sua struttura ha subito modifiche e ampliamenti negli anni, partendo da un edificio centrale con una lunga storia alle spalle. Le prime notizie del manufatto risalgono addirittura al 1561: si trattava di un edificio di modeste dimensioni, separato in due parti da una via principale. Fu ampliato nel 1626 e una prima rappresentazione catastale si ha solo nel 1825.

La Caserma Borgognini: questa parte, sarà in seguito adibita a laboratori e uffici.

Qui troviamo il corpo principale della fabbrica che ospitava all’interno una parte della strada maestra rotabile per Pietrabuona. La sezione di fabbrica che si sviluppava parallelamente al fiume Pescia era divisa in due parti collegate tra loro: una su tre livelli e una su unico livello. A valle, troviamo due gore, una alimentava una filanda e una un frantoio.

Vista dall’alto nel periodo di produzione

Nel 1875 il manufatto subì ulteriore ampliamento; i lavori riguardarono il corpo principale che fu portato alla configurazione attuale. Queste modifiche interessarono anche la sede stradale che fu deviata a costeggiare la fabbrica. Tra il 1915 e il 1919 la Cassa di Risparmi di Pescia, che era proprietaria dell’immobile, lo concesse gratuitamente al Ministero della Guerra. Nacque la Caserma Borgognini.  Qui, vi svolse il servizio di leva il comico Totò.

Macchinari e operai all’opera

Nel 1921 l’immobile fu acquistato dalla famiglia Del Magro per impiantare una produzione di stoviglie in alluminio. Nel 1935 oltre ad altri ampliamenti, venne realizzata la portineria. Nel 1951 avvenne una variazione nell’intestazione societaria: “Società per Azioni Fratelli Del Magro” e si assistette ad un aumento della consistenza edilizia, che continuerà a crescere fino agli anni 60. Nel periodo più florido, la fabbrica impiegava 400 dipendenti. In quello stesso periodo la gamma produttiva venne ampliata, realizzando anche scaldabagni. I continui dissapori tra i fratelli Del Magro portarono alla chiusura dello stabilimento nel 1989, quando ormai il numero dei dipendenti era sceso a 25.

Una foto storica, nello sfondo, si intravede il corpo principale su più livelli dello stabilimento.

 

Il documento per il deposito del marchio, risalente al 1951

 


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Società Anonima Lanificio Calamai

Lanificio Calamai

La fabbrica si trova a Prato, nel quartiere di San Paolo, oggi immersa in altre realtà industriali ed edifici civili. Delle due ciminiere, rimane il mozzicone di una, l’altra è stata abbattuta.  Di seguito la storia della fabbrica e del suo fondatore.

Qui sotto il confronto tra la foto satellitare attuale e una veduta storica dello stabilimento. Si vedono i vari cambiamenti subiti, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Inoltre, si nota, come sia stata inglobata nel tessuto urbano odierno.       

Brunetto Calamai, nato a Prato il 5 aprile del 1863 da Giosuè e da Luisa Bini, comincia a lavorare giovanissimo nell’industria laniera. Interrotti gli studi a tredici anni per motivi di salute, nel 1878, appena quindicenne, inizia l’attività industriale con la lavorazione della lana meccanica, introdotta nell’industria pratese fra il 1850-51, e divenuta in breve tempo una produzione caratteristica della zona. Questa prima fase dell’attività del Calamai si svolse in un piccolo stabilimento con appena dieci operai: “La Polveriera” di proprietà dei conti Bardi, in località San Quirico di Vernio.

Solo sei anni più tardi l’impresa subisce una prima trasformazione con il trasferimento della lavorazione a Prato, nel lanificio “Le Vedove”, dove viene installata una piccola filatura per la lana greggia che consente di realizzare l’intero ciclo produttivo. Negli anni immediatamente successivi all’introduzione della tariffa doganale del 1887 il Calamai compie un altro passo nell’ampliamento della sua impresa. Nel 1891, infatti, acquistato un vecchio mulino già adibito alla lavorazione della canapa – “Il Maceratorio”, con un impianto di circa 2.000 mq – lo trasforma in lanificio e ne amplia le strutture giungendo ad impiegare 150 operai.

Nello stesso anno importa ed installa nello stabilimento il selfacting, il primo filatoio interamente automatico impiegato dall’industria laniera di Prato. Il ciclo completo di lavorazione di tutti i tessuti, comprendente carbonisaggio e sfilacciatura, cardatura, filatura, tessitura, follatura, tintura e rifinizione, venne raggiunto fra il 1905 ed il 1922 con un costante ammodernamento degli impianti e delle strutture produttive ed il progressivo aumento di manodopera, che raggiunge le 500 unità.

Convinto che i particolari metodi di produzione dell’industria laniera di Prato debbano essere protetti con criteri e sistemi più diretti e specifici di quelli adottati dall’Associazione dell’Indutria laniera italiana, nel 1897 fonda insieme ad altri noti industriali del ramo, quali Raimondo Targetti ed Alceste Cangioli, l’Associazione dell’arte della lana di Prato, seguita a breve distanza di tempo dall’istituzione di una Scuola pratica di commercio. All’Associazione fu inoltre attribuito fin dalla fondazione il compito di dirimere le eventuali controversie sindacali; funzione che ebbe occasione di espletare per la prima volta nel 1900.

Le fasi della costruzione di alcuni capannoni

Il Calamai è tra i primi industriali di Prato a trattare con il mercato estero e il primo, nel 1902, ad occuparsi dei problemi connessi all’esportazione; problemi che ritiene possano essere opportunamente risolti con la costituzione di un sindacato per la vendita del prodotto locale. Il livello produttivo raggiunto gli vale riconoscimenti in campo nazionale ed internazionale: nel 1911 riceve il Grand Prix all’Esposizione internazionale di Torino; nel 1918 la medaglia d’oro all’Esposizione dell’industria toscana tenuta a Firenze; nel 1925 la medaglia d’oro della città di Firenze e il Grand Prix del comitato all’Esposizione internazionale di Firenze.

Si interessa ai problemi sociali e dell’istruzione popolare, istituendo nel suo lanificio una scuola per l’istruzione elementare degli operai e dei loro figli. Sostiene la funzione primaria dell’istruzione tecnica – che ritiene fondamentale per una città a sviluppo prevalentemente industriale – occupandosi del locale istituto tecnico e dell’istituto commerciale Nicastro. Ricopre per circa quaranta anni la carica di consigliere dell’istituto industriale T. Buzzi. Nel 1907 si fa promotore di una società cooperativa per la costruzione di case per gli impiegati e gli operai del suo stabilimento (progetto che venne realizzato pienamente nel 1937), e fonda una società di mutuo soccorso e di assistenza civile per gli operai. Crea inoltre nella sua fabbrica il primo gruppo aziendale dopolavoristico pratese. Durante il conflitto 1915-1918 il lanificio viene mobilitato, e il Calamai fa parte del Comitato di mobilitazione industriale istituito nel capoluogo toscano. Cavaliere del lavoro fin dal 1910, nel 1923 possiede la tessera ad honorem del partito fascista. Ad essa seguì, nel 1935, la nomina a commendatore della Corona d’Italia. Fra le cariche ricoperte c’è quella di consigliere della Camera di commercio – che mantiene per circa trent’anni – e quella di rappresentante del Consiglio provinciale fascista dell’economia. Inoltre, fin dalla più giovane età, è consigliere ed assessore del comune di Prato, consigliere e quindi presidente della deputazione ospitaliera, consigliere della Cassa di Risparmio, del Monte di Pietà, della R. scuola Pacinotti di Pistoia. Muore a Prato l’11 febbraio 1936.

Nel 1922, infine, la ditta – che aveva fino ad allora portato il nome del suo fondatore – viene trasformata in “Società anonima Lanificio Calamai”, di cui il Calamai resta presidente fino alla morte. Nomina come amministratore suo figlio Corradino. Nel 1927 la fabbrica occupa 28.000 metri quadrati dei quali 22.500 coperti. Nel 1930 si rende necessario un nuovo ampliamento per realizzare una tintoria e un nuovo magazzino. L’intervento è progettato da Pier Luigi Nervi che realizza una copertura con capriate rialzate in cemento armato su pilastri, tenendo le travi molto distanti tra loro e realizzando così una copertura molto leggera.

La tintoria, nello spazio progettato da Nervi

La tintoria, nello spazio progettato da Nervi

Nei link il riferimento dell’associazione “Tuscan Art Industry”: Il progetto dell’associazione SC17 nasce nel corso dell’anno 2015 e si presenta come un laboratorio di ricerca che coinvolge artisti, curatori, fotografi, musicisti e performer a lavorare in sinergia all’interno dei siti di archeologia industriale in Toscana. Una importante iniziativa con la quale vengono rivalutati e riscoperti ex ambienti di lavoro, sensibilizzando le amministrazioni e la comunità alla salvaguardia di queste memorie storiche e sociali.


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Riferimenti in rete

Sanatorio Banti

Questa monumentale struttura si trova subito fuori Firenze, in una bellissima zona collinare nei pressi di Pratolino. Fu inaugurato nel 1939, diventando un polo di eccellenza per la cura della tubercolosi, malattia molto diffusa all’epoca.

Il Banti rappresenta un edificio di importanza storica per quanto riguarda l’architettura toscana dei primi del novecento: risulta infatti una delle prime costruzioni realizzate interamente in cemento armato.

Due foto storiche del sanatorio

La sua storia inizia nel 1934, quando l’amministrazione provinciale decise di edificare un istituto sanatoriale a Pratolino, poiché la lontananza dalla città, la salubrità dell’aria, la ricchezza di boschi sembravano essere ideali per la cura della tubercolosi. La famiglia Demidoff, proprietaria della villa di Pratolino, donò il terreno. La progettazione e la costruzione furono affidati agli ingegneri Giocoli e Romoli dell’ufficio tecnico dell’INFPS. L’ing. Felice Romoli era legato in matrimonio a Elena Luzzatto, la prima donna italiana a laurearsi in architettura presso la Regia Scuola Superiore di Architettura di Roma. La sua tesi aveva il titolo “Sanatorio nei pressi di Como” ed era un massimo esponente dell’architettura razionalista. Con suo marito partecipò alla progettazione di vari ospedali. Per quanto sopra, qualcuno ritiene che abbia contribuito alla realizzazione del Banti ma non abbiamo documenti a supporto di questa tesi. Sembra più un voler rendere omaggio ad un grande architetto che è diventato il simbolo dell’emancipazione femminile in un ambito, all’epoca, strettamente maschile. Successivamente alla fine della guerra e congiuntamente alla notevole riduzione della patologia tubercolare, l’edificio è trasformato in attrezzatura ospedaliera, funzione che continua a svolgere sino al 1989. Terminata la funzione sanatoriale e ospedaliera, dopo aver ospitato una comunità di curdi ed albanesi, l’ospedale è oggi del tutto inutilizzato. Nel settembre del 1997 l’amministrazione dell’INAIL ha richiesto alla proprietà l’acquisto dell’edificio per trasformarlo in un albergo da inserire tra le attrezzature per i pellegrini del Giubileo. Tutto questo non si è mai realizzato. L’area è stata per anni vigilata notte e giorno per impedire che venisse occupata. Grazie a questo deterrente, il complesso si era mantenuto quantomeno nel suo aspetto strutturale. Ad oggi, abbandonata la vigilanza, il Banti è stato fenomeno di ogni tipo di vandalismo, fino all’incendio di alcune sue parti nell’inverno 2016. Un’indegna fine per uno stupendo esempio di razionalismo con quasi un secolo di vita.

Descrizione dell’edificio

Presenta un impianto articolato, risultante dalla somma di due corpi longitudinali slittati e raccordati al centro da un’ala trasversale; a tale articolazione planimetrica corrisponde l’estrema compattezza dei corpi a sviluppo orizzontale. Tutto si concentra sulla torre dei collegamenti verticali, punto di riferimento visivo fondamentale per il paesaggio circostante. La rigorosa volumetria dell’impianto è movimentata dal gioco delle altezze: due piani fuori terra per il corpo dell’ingresso, 5 e 6 piani per le ali dei reparti, 7 piani per la torre dei collegamenti. La facciata occidentale presenta al centro i due corpi dell’ingresso e della torre, ambedue caratterizzati dal rivestimento in lastre di travertino. La torre, vero e proprio asse compositivo del sistema, presenta due nastri verticali in vetrocemento che la tagliano per tutta l’altezza sui lati ovest e sud e, in corrispondenza dell’ultimo livello, una serie di aperture a feritoia su tutti i fronti (3 e 4 per lato), evidente richiamo all’architettura fortificata medievale. Le due ali, corrispondenti alle camerate, si articolano su cinque piani fuori terra. Segno distintivo di questo edificio sono le immense vetrate elioterapiche dell’ultimo piano.


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Bibliografia

 

 

“Edilizia in Toscana tra le due Guerre”
Mauro Cozzi
Edifir, 1994 – 254 pagine

I padiglioni di Poggio alle Croci del manicomio di Volterra

L’ospedale psichiatrico di Volterra o Frenocomio San Girolamo ebbe origine nel 1884 come ospizio di mendicità per i poveri del comune. Cominciò la sua attività con 4 degenti e registrò nel 1942 il massimo di presenze contando 4145 pazienti e 770 dipendenti.

Negli anni ‘20 il complesso ospedaliero comprendeva 13 padiglioni destinati ai malati ed ai servizi e svariati edifici quali officina, molino, forno, etc. che servivano ad assicurarne l’autosufficienza.

Gli ultimi padiglioni furono costruiti sul Poggio alle Croci per l’assoluta mancanza di spazio edificabile. Il Poggio fu scelto per la vicinanza al frenocomio stesso, cosa che consentiva di usufruire completamente dei servizi generali di quest’ultimo.
Nel 1926 fu realizzato il padiglione Charchot come ricovero femminile. Successivamente il Ferri, per ospitare pazienti pericolosi o ritenuti tali, ed infine il Maragnano per gli ammalati di tubercolosi.

I padiglioni del Poggio alle Croci (2015 circa)

Il direttore fino ad allora era stato il professore Scabia, che aveva cercato di realizzare un manicomio autosufficiente con officina, azienda agricola e perfino una propria moneta; cercò inoltre di curare i degenti con la terapia occupazionale, escludendo l’uso su di loro di strumenti fisici coercitivi. Ma non ebbe il successo sperato e dopo la sua morte, avvenuta nel 1934 (si fece seppellire nel cimitero dove venivano inumati i cadaveri dei degenti  non reclamati dalle famiglie) nell’ospedale si rafforzò il regime poliziesco ed una organizzazione piramidale che escludeva di fatto il rapporto tra staff tecnico e pazienti. Questo a maggior ragione nel “manicomio criminale” Ferri. Gli infermieri non potevano dare notizie ai parenti dello salute psichica del malato né ai pazienti notizie dei loro parenti o di quanto avveniva nel mondo. Anche la corrispondenza non veniva mai recapitata ma conservata in loco. A questo riguardo è stato da poco ripubblicato il libro “Corrispondenza negata” uscito una prima volta nel 1978 e contenente alcune delle lettere che non furono mai spedite.

Nel 1963 si cominciò a cambiare il regime carcerario fino alla definitiva chiusura di tutto il manicomio nel 1978 con l’entrata in vigore della legge Basaglia.

Il padiglione Ferri è famoso per le incisioni fatte dal degente Oreste Fernando Nannetti, soprattutto sulle pareti esterne degli edifici manicomiali. Sono circa 180 metri x 2 di frasi e disegni eseguiti senza una logica apparente. Di lui e della sua opera parleremo in un prossimo numero della rivista. Qui sotto intanto un’esempio significativo del suo lavoro.

 

.. ha fatto caso a questi spazi lasciati vuoti sopra la panca? ci stavano seduti tre ricoverati, ogni mattina li portavamo al loro posto, sempre lo stesso tutti i santi giorni, lo si faceva per abitudine, a loro andava bene o meglio per loro non faceva differenza, erano, come si dice, catatonici, non muovevano un dito, non proferivano una parola, stavano seduti sulla panca appoggiando la schiena al muro; ci ha scritto tutto intorno, lui scriveva e loro non battevano ciglio intenti a fissare va a sapere cosa, può riconoscere anche i contorni delle teste, vede? una due tre ..”

Tratto da “Nannetti” di Paolo Morandi


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Riferimenti in rete

 


Bibliografia


 

 

N.O.F. 4 Il libro della vita
Mino e Aldo Trafeli
Edizioni Bandecchi e Vivaldi 2016

 

 


 

La corrispondenza negata
Epistolario della nave dei folli (1889-1974)
Autori vari
Edizioni del cerro 2008

 

 

 

 

 

 

Le officine della follia.
Il frenocomio di Volterra (1888-1978)
di Vinzia Fiorino
Editore ETs

 

 

 

 

Il Frenocomio di S.Girolamo in Volterra
di Luigi Scabia
Pubblicato a Volterra nel 1910 dallo Stabilimento Tipografico A. Carnieri

Ceramiche Brunelleschi

Questo stabilimento si trova nella frazione “Le Sieci”, lungo la strada aretina che collega Pontassieve a Firenze. Sorge all’interno di un’area che comprende una delle più vecchie fornaci del nostro paese.

Le prime notizie certe relative alla fornace delle Sieci risalgono al 1774: sappiamo infatti che in quell’anno essa fornì gran parte dei laterizi utilizzati per i lavori di restauro ed ampliamento del Palazzo Pretorio a Ponte a Sieve.
Si può ragionevolmente supporre però che la fornace esistesse già da qualche tempo, anche se non se ne trovano tracce documentate.
La scelta del luogo d’impianto è da mettersi in relazione essenzialmente con la vicinanza dell’Arno, da cui veniva tratta la materia prima per la “formatura” dei mattoni, che avveniva nelle “piazze dei mattonai” situate sul greto del fiume.

In origine la fornace era strettamente legata alla vita e alle necessità della vicina fattoria Albizi di Poggio a Remole cui spettava, attraverso la figura dell’agente (fattore), l’amministrazione della fornace stessa: come testimoniato per molte altre simili realtà disseminate nel territorio circostante la fornace, alimentata dalla “stipa” e dalle “fastelle” provenienti dai boschi aziendali, forniva il materiale necessario per la manutenzione della villa padronale e delle numerose case coloniche dipendenti dalla fattoria stessa, in un’ottica principalmente di auto-consumo (non si hanno notizie, se non sporadiche, di vendite di materiale).

Le oscillazioni nella produzione ed il carattere stagionale di determinate fasi della lavorazione (impasto, formatura e stagionatura dei mattoni) facevano sì che la fornace si avvalesse di mano d’opera saltuaria, con – probabilmente – l’unica eccezione di un “maestro fornaciaio”.
In quest’epoca (fine del ‘700) l’abitato delle Sieci era costituito dalle poche case situate lungo l’Arno alla confluenza del torrente Sieci, nei pressi della pescaia, mentre intorno all’antica pieve di Remole esistevano soltanto alcune case coloniche, di pertinenza anch’esse della fattoria Albizi. Come si vedrà più avanti, il passaggio della fornace ad una dimensione industriale alimentò col tempo anche lo sviluppo dell’antico borgo e la nascita dell’odierna frazione di Sieci, intorno alla fabbrica e alla millenaria pieve.

Una prova certa dell’esistenza della Fornace delle Sieci ci viene invece dalle mappe del Catasto Generale Toscano degli anni venti dell’800: a questa data il complesso risulta già articolato attorno a due fornaci: una per la produzione di laterizi e calcina e un’altra destinata alla produzione del cosiddetto “lavoro sottile”. Alla morte del marchese Amerigo degli Albizi, avvenuta il 14 gennaio 1842, e con la conseguente estinzione del ramo fiorentino della famiglia, l’intero patrimonio familiare (compresa quindi la fornace di Sieci, facente parte della fattoria di Remole) passò ad un ramo collaterale della famiglia (trasferitosi in Francia fin dal ‘400), nella persona del Cav. Alessandro. Fu il figlio di quest’ultimo, Vittorio, figura di primo piano nel panorama culturale ed economico fiorentino, ad avviare alla metà del secolo la ristrutturazione e il potenziamento della fornace, secondo principi imprenditoriali. Egli fece importare dalla Francia nuove tecnologie con le quali dette inizio alla produzione di speciali embrici di copertura in seguito chiamati “marsigliesi”, dal luogo d’origine delle maestranze specializzate. Pur rimanendo legata amministrativamente alla fattoria di Remole, la fornace si apprestava a vivere una stagione di grande fortuna, in cui non scarso peso ebbe la felice ubicazione dello stabilimento, servito non solo dalla rotabile regia Aretina ma anche dalla nuova strada ferrata Firenze – Arezzo, inaugurata nel 1862. Erano gli anni di Firenze capitale e la Fornace delle Sieci si attrezzò per soddisfare le aumentate richieste da parte del vicino mercato cittadino, cercando di accrescere e diversificare la produzione.

In relazione a questa fase di sviluppo salì ovviamente anche il numero di coloro che erano stabilmente occupati nell’impianto, che intorno al 1860 impiegava 24 addetti, cifra destinata ad aumentare negli anni successivi.
Parallelamente si verificò anche una crescita della popolazione dell’abitato delle Sieci, che ben presto poté fregiarsi di una nuova stazione ferroviaria, inaugurata il 6 settembre 1878.
Alla morte di Vittorio degli Albizi (avvenuta il 14 marzo 1877), la “fabbrica delle terre cotte posta alle Sieci” era ormai ultimata, e capace di sostenere una regolare produzione della nuova gamma di prodotti (tegole alla marsigliese e mattoni forati). La proprietà fu rilevata dalla sorella Leonia Anna, che nominò alla conduzione della fornace un dirigente tecnico, l’Ing. Leonida Budini: in quegli anni lo stabilimento moltiplicò la produzione e gli ordinativi, cosicché si resero possibili nuovi investimenti per un ulteriore ampliamento della fornace e per l’acquisto di nuovi macchinari.

Al momento della vendita della fornace da parte degli Albizi – Frescobaldi a favore della “Società autonoma Fornace alle Sieci” (1881), l’impianto funzionava ormai a pieno regime grazie ai due forni Hoffmann, dalla caratteristica forma ellittica. Il primo (risalente agli inizi degli anni cinquanta dell’800) era quello situato in prossimità della strada per Molin del Piano, sul luogo dell’antica fornace; esso utilizzava, per l’impianto dei mattoni, il materiale argilloso ricavato dalle rive del fiume (la cosiddetta “mota d’Arno”), che veniva trasportato con “barchetti” e “stagionato” a lungo; con la rena cavata dall’Arno, trasportata sempre con “barchetti”, si ricavava invece un correttivo smagrante. Vi era poi un’apposita fornace da calce alimentata da una vicina cava di calcare, anch’essa di proprietà Albizi.

Per le tegole (campigiane “modello Pelago”), la mota d’Arno veniva mescolata per metà con il galestro (complesso di argille scagliose), cavato nel bacino inferiore del torrente Vicano, e poi sminuzzato nei pressi della Fornace. Il secondo forno (finito di costruire alla fine degli anni settanta) utilizzava le stesse materie prime di quello più vecchio, ma era dotato di metodi di scavo e trasporto ben più moderni. I materiali venivano portati dal fiume in una rete di bacini di raccolta situata all’interno dell’area della fabbrica, collegati all’Arno tramite un canale. Un’idrovora convogliava le “torbide” in grandi vasche dette “margoni”, ove avveniva la decantazione, l’essiccazione e la stagionatura dei materiali argillosi. Gli impasti ottenuti venivano poi lavorati a macchina, e la produzione che se ne otteneva era assai varia. Come combustibile venivano usati generalmente la lignite (in pezzi, in frantumi, in “pule”) e la polvere di carbon fossile, proveniente probabilmente dai bacini minerari del Valdarno superiore. Agli inizi del ‘900 furono installati due motori a vapore fissi, due locomobili della forza complessiva di 140 cavalli, e 19 macchine per la produzione di laterizi; venne rinnovato anche il macchinario ausiliario e quello di officina.
A quel tempo erano impiegati nella fornace (il numero variava a seconda dei periodi dell’anno) tra gli 80 e i 120 uomini, una ventina di ragazzi e circa 30 donne.
Poco dopo gli occupati raggiunsero le 200 unità, per diventare circa 400 durante gli anni venti, che rappresentarono il periodo di massimo sviluppo della fabbrica.
In questo periodo, alla tradizionale produzione di mattoni di scarsa qualità (nel forno più antico) e di embrici alla marsigliese e torrette da camini (nel secondo forno), si aggiunse quelle delle cosiddette “tomettes”, le comuni piastrelle esagonali per pavimenti.
Negli anni trenta venne attuata una riconversione che portò allo spegnimento del vecchio forno e alla produzione sperimentale di grès rosso, mentre la gamma dei laterizi si ridusse a due soli tipi di pezzatura (5×10 e 7,5×15).

Durante la guerra, la fabbrica venne sequestrata, costretta ad interrompere ogni attività e adibita a deposito di munizioni. Gli impianti furono poi danneggiati dai bombardamenti alleati, finalizzati alla distruzione del vicino ponte ferroviario sul Sieci. Alla fine del conflitto riprese la produzione del grès, mediante l’utilizzo del vecchio forno Hoffmann.
Contemporaneamente venne avviata una ristrutturazione (conclusasi nel 1955) che portò all’utilizzo di avanzate tecnologie tedesche (presse meccaniche fornite dalla Ditta Dorst) che migliorarono la resa produttiva dell’impianto.
Furono costruiti anche nuovi capannoni, sorti sull’area delle vasche di decantazione ormai inutilizzate. Il nuovo forno a tunnel permise di aumentare la produzione e di raggiungere standard qualitativi più elevati. Ad esso si affiancò un secondo forno, con il conseguente spegnimento (1962) dell’ultimo forno Hoffmann sopravvissuto (il più recente), ormai inadeguato.
A seguito di una crisi di mercato nel settore del grès smaltato, fu intrapresa una politica di riconversione aziendale, che culminò col passaggio dello stabilimento (1976) alla Società “Ceramiche Brunelleschi”. Quest’ultima, dopo aver operato una serie di investimenti per l’acquisto di nuovi macchinari e dopo anni di studi e tentativi (non sempre fruttuosi), avviò intorno al 1980 la lavorazione del cotto smaltato, prodotto sino alla chiusura dello stabilimento. Del nucleo originario della fornace degli Albizi non rimane pressoché alcuna traccia.

La prima documentazione fotografica di cui siamo in possesso (risalente al 1920 circa) illustra l’area dell’antica fornace a seguito delle trasformazioni operate tra il 1850 e il 1880 circa; in essa sono ben riconoscibili i due forni (il primo sulla sinistra, situato nelle vicinanze del torrente Sieci, e quello più nuovo sulla destra, allineato parallelamente al corso dell’Arno), circondati da un complesso di edifici legate da rapporti funzionali (seccatoi, magazzini, vasche, ecc.).
Questa organizzazione degli impianti, che non discosta troppo da quella attuale, non subì per circa un secolo grosse modifiche: alla metà del nostro secolo, l’impianto architettonico originario delle fornaci risultava alterato soltanto per l’aggiunta di alcune tettoie (adibite a magazzini e depositi), realizzate con semplici strutture lignee. Oggi è possibile ammirare soltanto il secondo dei due forni (del primo si è conservata esclusivamente l’alta ciminiera), anche se ovviamente privato delle primitive funzioni. La facciata principale, di chiara impronta neoclassica, si caratterizza per le regolari costolature verticali che inquadrano le grandi finestre rettangolari e le aperture ad arco ribassato del pian terreno; il tutto sovrastato dall’imponente timpano triangolare, alleggerito da un semplice occhio centrale. Per quanto riguarda i materiali di costruzione, osserviamo che la pietra forte squadrata dei paramenti si alterna al cotto (occhi, architravi delle finestre) e ai mattoni sbalzati (modanature dei timpani, coronamento dei muri perimetrali, ecc.), andando a comporre un insieme di grande equilibrio formale.

Gli ampi spazi interni, che ospitavano il forno ellittico e i magazzini, sono ripartiti da altissimi pilastri in pietra. Gli altri edifici che compongono attualmente la fabbrica sono il frutto degli interventi del secondo dopoguerra, divenuti necessari a seguito delle distruzioni causate dai bombardamenti e dell’ammodernamento del ciclo produttivo: si tratta di capannoni ad un piano, con copertura a volta, e di alcune strutture puntiformi in calcestruzzo edificati (senza alcuna attenzione per i valori ambientali del contesto in cui sorgono) in luogo del più vecchio dei due forni; essi in parte utilizzano come basamento anche i muri delle antiche vasche di accumulo di argilla, in origine collegate al secondo forno.

La fabbrica, dopo il fallimento del 2011 ha chiuso definitivamente alla fine dell’anno 2012.

Le foto riportate in galleria, si riferiscono al periodo immdiatamente successivo alla chiusura; come si vede, tutto sembrava ancora pronto ad una nuova ripartenza. Nei successivi anni, tutte le attrezzature sono state rimosso e molti edifici smembrati e snaturati. Questo è bene visibile dal video seguente, trovato su Youtube.

Rimane ancora in piedi, la struttura della secolare fornace, gravemente danneggiata da anni di intemperie.

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Una foto dei primi anni del’900


Galleria fotografica


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Miniera del Morone

La miniera si trova nella frazione di Salvena, nel territorio del comune di Castell’Azzara, in provincia di Grosseto. Di seguito alcune informazioni:

Minerali presenti: Cinabro, Pirite, Realgar, Opimento, Melanterite, Alunite, Kermesite, Dawsonite, Mercurio nativo, Zolfo, Gesso, Anidride. Quarzo, Caleopirite-quarzo.
Sostanze estratte: Hg (Mercurio), Sb (Antimonio), S (Zolfo), Cu (Rame).
Descrizione naturalistica: Mineralizzazione cinabrifera posta in calcari canidriti retici; calcari nummulitici cocenici e formazioni argillose delle Liquiridi. Il giacimento si è sviluppato con disseminazioni, sostituzioni e patine intorno ai camini riempiti di argilla cinabrifera. La Stibina si ritrova associata a Gesso e Cinabro o in Quarzo. A Borghetto tracce di minerali cupriferi in ganga quarzosa.
Descrizione storica: Si tratta del giacimento minerario più noto per essere sfruttato con continuità in epoca preindustriale; vi sono stati rinvenuti arnesi in pietra ed armature ignee; il giacimento inoltre risultò sfruttato fin dove era possibile in antico, cioè fino al livello delle acque. Riaperto da Haupt nel 1873 produsse il primo minerale solo nel 1906. E attestata l’esistenza di una fornace.
Interpretazione storica: Oltre alle tracce di lavorazione di epoca preromana, disponiamo per le miniere di Selvena, di documenti medioevali che attestano lo sfruttamento da parte degli Aldobrandeschi, nel XV secolo. Biringuccio parla di una miniera di Antimonio, nei secoli XVI e XVII, è attestata anche l’estrazione del Vetriolo. La miniera di Mercurio, riaperta neI 1873, ha cessato la propria produzione nel 1985.
Epoche di sfruttamento: Preromana, Medioevale, Medicea, 1873 – 1882, 1889- 1985.

La miniera del Morone inizia l’attività produttiva il 9 gennaio 1906 quando venne acquistata dalla società mineraria Monte Amiata; prima di tale data la proprietà era della società “The Santa Fiora Mercury Limited”. Gli operai all’epoca lavoravano undici ore al giorno, con paghe bassissime, senza assistenza sanitaria e con frequenti casi di sfruttamento di manodopera giovanile. Per poter risolvere questi problemi si dovette arrivare alle grandi lotte dell’ottobre 1914 e del giugno 1919, quando i minatori reclamarono commissioni paritetiche per la composizione delle vertenze di lavoro, casse per malattie professionali, farmaci ed infermerie adeguate per la miniera, sette ore di lavoro per gli interni e otto per gli esterni. La società Amiata venne a patti novantacinque giorni dopo. Le rivendicazioni continuarono anche sotto il governo fascista, che con arroganza, prepotenza e continue discussioni creava molte difficoltà ai minatori. La conseguenza di queste proteste, purtroppo, portò alla perdita del posto di lavoro di buona parte dei quattrocento minatori tra Selvena, Castell’Azzara e Santa Fiora. Un altro grave problema di quegli anni era l’inadeguatezza delle misure di sicurezza, che causarono diversi incidenti di cui due mortali. La ditta, verso la fine degli anni trenta, per aumentare la produzione di minerale introdusse un nuovo tipo di lavoro denominato “Bedaux”, il famoso “cottimo”: il minatore che riusciva a fare una maggiore produzione riceveva un salario più alto. Tutti si ribellarono a questa imposizione, che terminò solo con la chiusura della miniera nei primi anni trenta. Gli operai si trovarono a casa senza uno stipendio per poter aiutare la famiglia e nel paese ricomparve, inevitabilmente, la miseria. La miniera riaprì per un breve periodo verso la fine degli anni trenta, poiché il minerale veniva utilizzato per scopi bellici. In seguito la miniera venne nuovamente chiusa, fino al dopo guerra. Alla riapertura, gli operai lavoravano saltuariamente e si dovevano recare al lavoro a piedi o con mezzi propri; il lavoro si effettuava con arnesi manuali come la picca, la pala e il martello pneumatico. Venivano utilizzate delle maschere per la protezione dalla polvere, che si depositava nei polmoni dei minatori causando la silicosi. In seguito, per cercare di alleviare questo problema, furono usati degli aspiratori e dei martelli pneumatici ad acqua; per chi tuttavia lavorava all’avanzamento, questo non era il solo rischio a cui andava incontro: spesso si doveva fare i conti con pericolose fughe di gas e di frane che si verificavano all’interno della galleria, dal momento che si lavorava fino a centoventi metri di profondità. In queste condizioni, è facile immaginare, gli aiuti potevano risultare inefficienti.
Negli anni sessanta, per portare i minatori a lavoro, venne istituito un servizio pullman; il primo autista fu Francesco Guerrini che poi fu sostituito da Desiderio Ricciarelli. L’orario di partenza era fissato per le 5,20 al mattino e le 13,20 al pomeriggio, dal momento che gli operai lavoravano in turni di otto ore per cinque giorni alla settimana.
I minatori percepivano una paga in base alle giornate effettuate, a cui andava aggiunto il “cottimo”, il sottosuolo e altre indennità varie. Per stabilire il pagamento del “cottimo”, all’avanzamento, venivano misurati i metri fatti dagli operai a cui, i vari caposervizio incaricati di queste misurazioni, tendevano sempre a toglierne qualcuno, scatenando inevitabilmente le ire e le proteste degli operai. All’avanzamento lavoravano due operai, che avevano il compito di liberare la galleria dal materiale franato per il brillamento delle mine del turno precedente. Quando la galleria era sgombra dai detriti veniva armato un nuovo tratto, togliendo la roccia pericolante e preparando nuovi fori per altre esplosioni. Solo se il caposervizio riteneva che il lavoro diventava insostenibile per due sole unità, veniva affiancato un terzo operaio. Il materiale arrivava al Morone sia dalla miniera del Ribasso che dalle Dainelli; da quest’ultima in particolare mediante una teleferica lunga ben novecento metri. Per caricare il cinabro sui vagoni, in un primo momento si usavano le pale, poi un macchinario innovativo per l’epoca. Il minerale veniva successivamente portato a cuocere nei forni, che prendevano il nome del loro coinventore, l’ingegner Spirek, ed erano denominati forni a cupola, all’interno dei quali il cinabro cuoceva a ottocentocinquanta gradi centigradi. Questa temperatura all’inizio veniva raggiunta bruciando la legna immessa in capienti focolari, in seguito si usarono dei bruciatori a nafta, che sostituivano gli uomini in quel faticosissimo lavoro. In fondo al forno, dove il calore era maggiore, il cinabro arrostito liberava mercurio allo stato di vapore, che grazie a degli aspiratori veniva convogliato in canali di condensazione continuamente refrigerati. Da qui, colava in vasche a chiusura idraulica, nelle quali si depositava misto a tutti i prodotti della combustione. Periodicamente veniva tolta una percentuale di metallo puro, che veniva introdotto in bombole del peso di 34,5 Kg.
Nel 1970 la crisi mercurifera colpì le miniere del Monte Amiata, causando una forte diminuzione del prezzo della bombola, mentre l’anno successivo ci fu un vero e proprio crollo. La Società Monte Amiata, conseguentemente, decise lo smaltimento della miniera del Morone. Immediata fu la reazione dei minatori, che occuparono la miniera per impedire la chiusura dei forni e nel contempo per respingere i tentativi di smobilitazione della stessa. Tutte le forze politiche del Comune entrarono con maggior vigore in azione, proponendo incontri chiarificatori con i responsabili della ditta Monte Amiata e con i rappresentanti del governo. Anche la popolazione di Selvena fece sentire la sua voce: le donne intervennero con energia protestando e picchettando il piazzale antistante la miniera. I selvignani si divisero in gruppi, effettuando dei turni di quattro-sei ore, per impedire l’accesso dei camion alla miniera e il trasporto del minerale dal Morone ad Abbadia. Per sopperire al freddo pungente del periodo (eravamo a novembre), le donne si preoccuparono di accendere dei falò e nello stesso tempo pensarono anche alla distribuzione del cibo ai minatori che erano rimasti all’interno della galleria.
La ditta, vista la resistenza degli operai e della popolazione, decise di far intervenire la polizia. Quando le forze dell’ordine arrivarono sul luogo, si resero conto che la protesta aveva un fine giustificato: la salvaguardia del posto di lavoro. La contestazione rimaneva rigida ma non sfociava in atti di violenza e la sera la polizia ritornò in caserma, lasciando il disbrigo della questione tra la ditta e gli operai. In quei giorni tra i rappresentanti sindacali e quelli societari si imbastirono febbrili contrattazioni, che inizialmente non sfociarono in alcun accordo. Uble Fontani e Goffredo Fontani, che difendevano gli interessi dei minatori, uscendo da una riunione esposero agli stessi le difficoltà a cui andavano incontro per risolvere la trattativa in modo favorevole. Per esprimere ancora più marcatamente il proprio desiderio di lotta i minatori mostrarono alla Monte Amiata un cartello su cui era scritto: “Qui si cava e qui si coce”. Gli incontri tra le due parti, proseguirono fino a quando la società decise di continuare ad estrarre il minerale, una piccola vittoria che coinvolse tutta la popolazione di Selvena. La crisi mercurifera, però, appariva inarrestabile e portò ancora ad altri incontri tra le forze politiche, i sindacati e le società che si alternavano nella gestione degli impianti minerari. L’attività produttiva della miniera del Morone avvicendava dei periodi in cui tutto sembrava risolversi in maniera positiva, ad altri decisamente più critici. Si arrivò così al 1976, anno in cui la ditta decise di usufruire della cassa integrazione viste le difficoltà di vendita del mercurio. Si effettuava un lavoro di turn-over che impegnava una trentina di operai per volta; il minerale estratto era portato ad Abbadia per la fase di cottura. Si arrivò così agli anni ottanta dove ci fu una piccola ripresa del settore e per circa un anno e mezzo venne aumentata la produzione interna, ma nel 1985 si verificò il crollo irreversibile del mercurio e la miniera del Morone chiuse la sua attività definitivamente. Fino agli anni novanta qualche operaio rimase per controllare i lavori di tamponamento della galleria, dei forni e di smaltimento della miniera. Con la chiusura del Morone scomparve un pezzo importante della storia e dell’attività lavorativa di Selvena. Oggi, quando si passa davanti all’ex miniera e si guardano i ruderi arrugginiti e quelle case con le porte e le finestre murate, ritornano alla mente gli anni in cui quel posto era affollato di operai, stanchi, sporchi, ma orgogliosi di quel duro lavoro e di quella vita da minatore. L’eventualità di creare un museo minerario nel sito del Morone viene vista dagli abitanti di Selvena come una rivincita per quegli operai, che per tanti anni avevano versato sudore nella miniera.
Le informazioni riportate in questa scheda sono state tratte dal libro Viaggio nei ricordi del nostro paese, Selvena dal 1900 ad oggi.
Nel link successivo, una descrizione con galleria fotografica, direttamente dal sito del Parcoamiata. Nel 2002 è stato costituito il “Parco Nazionale Museo delle Miniere dell’Amiata” che tra i suoi compiti, oltre alla messa in sicurezza, il recupero dei manufatti e la tutela ambientale dei siti minerari, ha quelli non meno significativo della conservazione degli archivi, della promozione degli studi della raccolta delle testimonianze e della valorizzazione ai fini turistici del territorio del Parco.

Il video seguente mostra una interessante raccolta di fotografie storiche del paese di Selvena. Qui le famiglie, la resistenza partigiana, la miniera e la vita quotidiana si intrecciano formando un unico legame.

Foto d’epoca

Le dure condizioni di lavoro

 

Foto di gruppo

 

Gli ultimi anni di attività

Di seguito un interessante documento che accompagnava gli splosivi dalla casamatta al luogo di utilizzo:

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Galleria fotografica (foto maggio 2011)


Riferimenti in rete

Dinamitificio Nobel di Carmignano

Alle porte di Firenze, nel comune di Signa, immersi in un folto bosco, riposano i resti di una delle più importanti fabbriche di esplosivi del novecento. Tra queste verdi colline nessuno potrebbe immaginare la quantità di edifici che, nascosti dal verde, costituivano la grande fabbrica di esplosivi. La sua storia ha avuto un ruolo fondamentale per Signa e dintorni, arrivando a contare circa 4.000 lavoratori.

Di seguito, le tappe fondamentali di questa storia, ricavate dal sito della proloco Signa:

Signa ha ospitato per buona metà del Novecento una fabbrica di dinamite che ha ricoperto un ruolo centrale nell’approvvigionamento dell’Esercito Italiano durante le due guerre mondiali.

In Italia era già presente una fabbrica di dinamite ad Avigliana di proprietà delle società di Alfred Nobel, ma presentava alcuni problemi: era troppo vicina ai confini nemici, aveva vecchi macchinari ed era stata vittima di alcuni gravi esplosioni. Per questo fu deciso di costruire una nuova fabbrica in un sito che avesse migliori caratteristiche. L’ubicazione scelta era posta alla confluenza dell’Ombrone nell’Arno, nei pressi del confine con Carmignano sulla strada per Comeana. Proprio per la vicinanza con Carmignano, la sua stazione e la sua comunità che la fabbrica prenderà il nome di impianto di Carmignano anche se si trovava nel territorio di Signa.

I motivi della scelta erano molti: una relativa vicinanza delle cave di pirite della Maremma e della Val di Cecina, la lontananza dalle coste marittime, in una posizione centrale rispetto allo Stato, il facile collegamento col porto di Livorno tramite ferrovia (vicinanza con la stazione di Carmignano), le caratteristiche del luogo, isolato e circondato in buona parte dall’Ombrone che in quel punto forma un’ansa.

Il terreno, facente parte della tenuta agricola di San Momeo nella zona detta Il Pitto, fu acquistato nel 1912 e un anno più tardi iniziarono i lavori che furono imponenti: fu spostata la strada provinciale tra Signa e Comeana che transitava proprio dentro l’area prescelta per la fabbrica; fu di conseguenza costruito un nuovo ponte; venne impiantato il bosco in porzioni della collina che invece erano coltivate a vigna al fine di rendere l’impianto difficilmente individuabile dalle aviazioni militari che cominciavano a svilupparsi; furono costruiti solidissimi edifici, tracciate strade, viali e piazze, e scavate gallerie.

La produzione aveva caratteristiche esclusivamente belliche. Durante la Prima guerra mondiale, lo stabilimento produsse principalmente esplosivi per le munizioni da cannone di grosso calibro: balistite e dinamite.

Dopo la Grande Guerra la fabbrica perse d’interesse per la proprietà e fu venduta nel 1925 alla Montecatini che dieci anni più tardi acquisì anche la Società Generale Esplosivi e Munizioni con la nascita della ditta Nobel-SGEM. La Montecatini in periodo di pace utilizzò lo stabilimento anche per sperimentazioni agricole (in un’area scoperta dal bosco in riva all’Ombrone ed anche in serra) e produzioni chimiche sperimentali.

Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, invece, la fabbrica ebbe nuovamente un ruolo militare importante; riprese la produzione di esplosivi (sempre a base di nitroglicerina) e furono costruiti molti nuovi edifici e persino un trenino con piccoli vagoni che trasportava il materiale tra i vari padiglioni e poi a valle fino alla ferrovia e di cui restano alcuni tratti delle rotaie che nell’ultimo tratto risultano collocati su tralicci di cemento armato, anch’essi aggrediti dalla vegetazione, come tante altre strutture edilizie.

Nel 1944 cadde in mano ai tedeschi che iniziarono a sfruttarla; da quel momento divenne oggetto di sabotaggi da parte dei partigiani: il più clamoroso avvenne l’11 giugno e  questo è il racconto:

All’1.10 della notte dell’11 giugno 1944 la polveriera salta in aria, per l’esplosione di 8 convogli pieni di tritolo fermi alla stazione.“Non è un incidente, come la gente pensa sul momento. No, è il risultato del sabotaggio della Squadra d’Azione Patriottica, guidata da Bogardo Buricchi. Con lui, il fratello Alighiero, Bruno Spinelli , Ariodante Naldi, Lido Sardi, Mario Banci, Enzo Faraoni e Ruffo Del Guerra.
Bogardo Buricchi è nato a Carmignano. Ha 24 anni. E’ definito maestro e poeta, spirito libero, odia le ingiustizie. E’ il capo indiscusso. Suo fratello Alighiero ha appena 19 anni. Lino Sardi, abitante alla Serra, ha sempre vissuto con la famiglia Buricchi. Bruno Spinelli è il più anziano del gruppo. Ha 43 anni. E’ un ex operaio della Nobel. E’ alla sua prima azione. Mario Banci ha 22 anni. E’ nato a Genova da genitori di Carmignano. E’ entrato nella Resistenza nel dicembre del 1943, da quando è sfollato a Montalbiolo. Ariodante Naldi, 21 anni, è studente a Firenze. Ruffo Del Guerra ha 21 anni. Abita a Poggio alla Malva, dove ha conosciuto Bogardo Buricchi, il quale va a trovare il parroco frequentemente. E’ di famiglia antifascista. Suo padre è stato ridotto in fin di vita dagli squadristi.Hanno deciso di fare un’azione importante prendendo di mira i vagoni della polverificio Nobel alla stazione ferroviaria. Sono stati informati che sono carichi di tritolo. E’ sabato. Pioviggina. Si trovano davanti al bar di Poggio alla Malva. Da lì si trasferiscono alla cipresseta della Cavaccia. Bogardo Buricchi stabilisce di non procedere insieme, ma che devono andare tre da una parte e tre dall’altra, mentre lui e Naldi vanno a diritto. Sanno che i vagoni sono otto, a circa quattrocento metri dalla stazione, su un binario isolato. Sanno anche che ci sono sentinelle, che devono essere eliminate. Ma non le vedono. Non c’è nessuno. I vagoni ci sono invece. Bogardo dà il via libera. I tedeschi sono altrove. Partecipano a una festa e sono tutt’altro che lucidi.
L’operazione è semplice, dice Bogardo. In pratica c’è da accendere una miccia. Ma hanno anche una bomba a tempo. Non si sa mai. Bogardo e Ariodante entrano in un vagone. Alighiero rimane a terra. A Bruno Spinelli è stata affidata una cassa di quaranta chili di tritolo. Lui e Mario Banci devono andare alla Cavaccia per metterla al sicuro. Può servire per altre azioni. Ruffo Del Guerra fa da palo nel cipresseto. E’ lui a scorgere la lampada di Bogardo. E’ lui a vedere Bogardo e Ariodante buttarsi giù dal vagone. E un secondo dopo il bagliore accecante, l’esplosione tremenda. Cosa non ha funzionato?Enzo Faraoni e Lido Sardi hanno fatto in tempo a spostarsi. E’ scoppiato un vagone. In successione, scoppiano gli altri, si dice per simpatia. Bogardo, suo fratello Alighiero e Ariodante vengono scaraventati contro le rocce. Disintegrati, Bogardo e Ariodante. Di loro saranno trovati brandelli e la tessera ferroviaria di Ariodante. Alighiero ha pochi attimi di vita. Faraoni e Sardi finiscono lungo distesi, feriti in modo non grave. Del Guerra sviene colpito forse da un tronco. Ne ha visti volare parecchi – impietrito – neanche fosserofuscelli. Bruno Spinelli, alla Cavaccia, è investito dall’onda d’urto che fa esplodere la cassa che trasporta. Fa un volo di molti metri e va a battere la testa contro un masso. Muore poco dopo.Mario Banci è ferito, ma ce la fa a muoversi.Non si sa quanti siano le vittime tra i tedeschi. Vero è che tutti gli edifici sono stati investiti. A chi è andata bene, ha avuto il tetto scoperchiato. L’esplosione è stata sentita a Prato e a Firenze. Il che ci fa capire la potenza. Che si valuta anche dalle dimensioni del cratere provocato. Sono tali da aver messo fuori uso un bel tratto di rotaie, impedendo il passaggio dei treni per giorni e giorni.E’ l’azione più importante dei partigiani fiorentini. Il prezzo pagato, però, è salato. Vi ha perso la vita gente in gamba. Bogardo Buricchi, nonostante la giovane età, ha sempre mostrato grande maturità, coraggio. A febbraio ha organizzato lo sciopero dei contadini di Carmignano contro l’ammasso supplementare del grano (15 chilogrammi per ogni componente delle famiglie). E il 2 marzo si è reso protagonista dell’incendio dell’ufficio comunale dove erano i documenti sui raccolti. Ha beffato anche la Banda Carità, arrivata a Carmignano per mettere ordine.Una formazione di partigiani pratesi prende immediatamente il nome di Bogardo Buricchi: è quella che partecipa alla liberazione della città laniera.A tutti e quattro, il 12 giugno 1966, i popoli di Carmignano e Prato dedicano un cippo a Poggio alla Malva. E’ intitolato “E ora impara te”.

Dopo la fine della guerra le commesse statali cessarono ed iniziò il periodo di crisi che sfociò in licenziamenti di massa. Un ultimo tentativo di salvare la fabbrica fu quello di convertire la fabbrica alla produzione di fitosanitari e pesticidi. Ma ormai era destinata alla chiusura che avvenne nel 1958. Dopo che nel 1964 lo stabilimento è stato bonificato dai residui degli esplosivi e dei materiali utilizzati per la loro fabbricazione, l’area su cui sorgevano gli impianti giace inutilizzata ed è passata in mano privata.

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Il volume redatto dal Comune di Signa che tratta le azioni di gruppi partigiani della zona nel 1944

 

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Alcune pagine che trattano dell’occupazione tedesca dello stabilimento

 

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Qui, invece, descritte le azioni di sabotaggio dentro e fuori lo stabilimento. Nella foto una veduta della Nobel

 

Numerosi sono stati i progetti per riqualificare l’area, dal polo universitario a studi cinematografici. Ad oggi, niente è cambiato.

L’area è frequentata dai gestori del bosco; grazie a loro, le palazzine più vicine all’entrata sono ancora in buono stato; molte delle altre strutture, più lontane dal viale principale, sono ormai fagocitate dalla vegetazione.


Galleria di foto storiche degli impianti (da Frammenti di Memoria)

 

Nella foto sotto, scattata nel 2008, fa bella mostra di se la palazzina dei laboratori. L’edificio meglio conservato sia esternamente che internamente. Al suo interno sono ancora visibili i resti di banchi da lavoro e cappe laminari.  Ad oggi (2016) la struttura esterna è praticamente invariata.

 


Galleria fotografica


Riferimenti in rete

Lanificio di Soci

Soci è una frazione del comune di Bibbiena attraversata da un’arteria statale, la SR71. Passata la piazza della chiesa vecchia, in direzione Camaldoli, incrociamo via del Lanificio e via del Tessitore. Questi nomi, insieme ad alcuni edifici, sono ciò che resta di una grosso complesso industriale; come altri nella zona, si occupava della lavorazione della lana. Deve la sua nascita al Berignale che attraversa il paese; un canale che sin da tempi antichi, forniva energia alle gualchiere per la sodatura della lana.

La nascita del lanificio fu opera di un cittadino di Soci, Giuseppe Bocci, che nei primi dell’ottocento iniziò questa attività sino alla creazione di un grosso polo industriale. Per rendere moderno il suo lanificio, Giuseppe mandò suo figlio Sisto a lavorare in Belgio. Qui, all’epoca, erano all’avanguardia nella lavorazione dei tessuti. Sisto tornò in Italia con esperienza e macchinari moderni. Tutto questo, portò alla fine dell’ottocento, alla creazione di un complesso con circa 500 dipendenti e alla produzione di rinomati manufatti, come il famoso tessuto del casentino.

Sisto Bocci, muore nel 1915, lasciando tutto in eredità ad un nipote, Adriano, che morirà al fronte durante il primo conflitto mondiale. La famiglia Bocci, decide di vendere il lanificio ad un industraile di Brescia, Giovan Battista Bianchi. Questi, modernizza la fabbrica, ampliandone la metratura. Purtroppo, la crisi finanziaria del 1929, trascina le aziende Bianchi e con esse il lanifico, verso il fallimento. I curatori del tribunale di Milano, si accorgono del buono stato di salute dell’azienda, tanto che uno di essi, Virgilio Maranghi, ne diventa propietario. Il lanificio riesce a fatica ad attraversare la seconda guerra mondiale sino ad un inevitabile fallimento del 1956.

L’attività passa così all’industriale pratese Brachi per poi fallire definitivamente nel 1970.

Sono gli stessi operai e tecnici a costituirsi cooperativa per poter continuare l’attività. Dal 1972 la Cooperativa Tessile di Soci (questo è il nome della nuova Azienda) produce stoffe conto terzi, con reparti di filatura, cordato, filatura pettine, tintoria in fiocco, tintoria in pezze, finissaggio.

Il signor Marchesini entra alla presidenza; acquistando immobili e macchinari e lanciando il marchio “Lanificio del Casentino”. Un accordo con il Comune di Bibbiena porta alla vendita di gran parte degli edifici storici che saranno trasformati in zone commerciali e abitazioni. La parte ancora produttiva viene ampliata. Tutto questo con il contributo della Comunità Europea.

Dopo un periodo di grossa produttività, tutto si arresta con la crisi del settore tessile, sino al nuovo fallimento del 2005. Ancora una volta la situazione vine presa in mano dagli operai che costituiscono una nuova cooperativa.

Ad oggi (2015) anche questa parte di attività è cessata. Soci non ha più la sua fabbrica tessile.

Proseguono invece le vicende processuali, come riporta questo articolo della rivista “Casentino 2000” datato 17 ott 2012:

“Un buco di bilancio nato da una operazione con una società della Mongolia che serviva a risparmiare milioni di iva non versata allo stato. Da questo alla bancarotta il passo è stato breve ed ha portato l’amministratore del Lanificio di Soci Simonello Marchesini in tribunale. Durante l’udienza il pubblico ministero ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e mezzo di reclusione. Secondo la procura aretina sarebbero state evase notevoli cifre: 4 milioni di iva, e altri 14 milioni di tributi vari. Secondo le ricostruzioni sarebbe stata messa in piedi una triangolazione con la Mongolia con una fittizia esportazione di capi dal Lanificio che in realtà non venivano mai spediti. A partire erano solamente i documenti contabili, le bolle di spedizione, mai accompagnate dall’abbigliamento. In tribunale la corte presieduta dal giudice Bilancetti è però chiamata giudicare solo la bancarotta, non compaiono infatti i reati fiscali scaturiti dalle spericolate operazioni.”

Del grosso complesso industriale di inizio ‘900, rimangono alcuni edifici ristrutturati.

Una parte, ancora originale, versa in totale stato di abbandono. Sino al 2012 era ancora possibile trovare al suo interno i vecchi macchinari tessili. Oggi, questi sono stati tutti rimossi, alcuni destinati ad essere restaurati. L’edificio ha subito ingenti danni con crolli, causati dalla neve e altre intemperie. Attività di bonifica erano in corso nell’agosto del 2015.

Resta, invece, ancora immutata, la parte interessata dall’ultimo fallimento.

Parte della storia è anche presente nel volume “L’arte della lana in casentino-Storia dei lanifici” scritto da Pier Luigi della Bordella.

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Di seguito, alcune vecchie cartoline del paese di Soci:

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Sullo sfondo le ciminiere del vecchio stabilimento

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Come si presentava l’intera area industriale ad inizio del ‘900

 


Galleria fotografica

Di seguito alcuni scatti della parte vecchia, risalenti all’agosto del 2012. Ad oggi, 2016, l’area è stata svuotata ed è in corso la bonifica


Riferimenti in rete

Pantalonificio Lebole

Lebole, foto storica

Rassina è una piccola frazione nel comune di Castel Focognano, in provincia di Arezzo. Il paese è attraversato da un’arteria statale, la SR71. Percorrendo questa strada e passando dalla piazza principale, possiamo notare quel che resta di una storica fabbrica: il pantalonificio Lebole. Come capirete di seguito, oltre a rappresentare un nome storico dell’abbigliamento Made in Italy, è stata un simbolo dell’emancipazione femminile nell’area casentinese. Qui lavoravano circa 600 persone, quasi tutte donne. Moltissime ragazze, giovani o madri di famiglia, trovarono nella Lebole di Rassina e di Arezzo l’opportunità di allontanarsi da una vita rurale e di sottomissione. Ben presto questo sogno si trasformò in un incubo; i ritmi insostenibili della fabbrica, i soprusi dei superiori, il doversi dividere tra lavoro e doveri casalinghi. Nacquero così i primi moti di sciopero a cui parteciparono le classi femminili; insomma, un’azienda con tanta storia da raccontare. Partiamo dall’inizio.

Dopo aver chiesto notizie al Comune di Castel Focognano, ho ricevuto una loro gentile risposta con il documento sotto riportato:

analisi storica area ex Lebole-Moda

In queste pagine non sono riportati gli ultimi atti di questo triste declino: il gruppo Lebole si trasforma poi in conpartecipazione statale diventando parte del gruppo Eni. Le difficoltà dovute alla crisi del settore e una gestione scellerata da parte di un ente che aveva solo il compito di inglobare aziende sull’orlo del fallimento; portarono all’indispensabile vendita a privati. Vince l’asta il colosso dell’abbigliamento Marzotto. Un susseguirsi di ridimensionamenti, a tutti i livelli, hanno portato alla chiusura definitiva dello stabilimento di Rassina nel luglio 1998.
Nel 2010 faceva bella mostra di se, sulla facciata principale, un cartello che dichiarava l’imminente realizzazione di appartamenti. I lavori sono iniziati nel 2012, portando alla demolizione di gran parte degli edifici per poi arrestarsi, causa la mancanza di fondi. La situazione rimane immutata fino alla fine del 2015.

Di seguito, un video tratto dalla trasmissione “Sportello Reclami”. Un consigliere del comune, spiega e mostra l’attuale stato di ciò che rimane della ex Lebole:

Una bella testimonianza di quanto abbiamo raccontato finora è rappresentata dal libro “La confezione di un sogno”, “La storia delle donne della Lebole” di Claudio Repek. Quarantasei testimonianze raccolte tra operaie, impiegati, dirigenti d’azienda e del sindacato che furono impiegati alla Lebole.

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Di seguito una pagina del libro che ci fa chiaramente capire le dure condizioni di lavoro nello stabilimento di Rassina:

Per concludere la storia di questo importante stabilimento, nel sito della Confederazione Associazioni Italiane Parkinson e Parkinsonismi (ONLUS), si legge quanto segue:

“Cinque ex dipendenti dello stabilimento Lebole di Rassina (AR) sono malate di Parkinson e i loro casi sono allo studio di un pool di medici. Si sospetta che possa esservi un collegamento con certi tessuti con coloranti, polveri e sostanze nocive con i quali sono venute a contatto in fabbrica.

Una richiesta per il riconoscimento della malattia professionale è stata inoltrata all’Inps, ma l’ente ha risposto chiedendo un riscontro scientifico. L’iter è ancora in una fase preliminare e si dovrà stabilire se si tratta di una coincidenza o se esiste davvero un nesso di causa ed effetto.

Intanto una delle malate di Parkinson, che ha 65 anni, lancia un appello alle ex colleghe, anche a quelle che hanno lavorato ad Arezzo, affinché segnalino, se esistono, casi analoghi. Un medico legale di Siena visiterà gratuitamente le ex “leboline”. A seguire la questione dalla parte delle ex lavoratrici è il patronato Acli. “


 
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Lanificio di Stia

Lanificio Stia

Nonostante un clima generale di miseria e arretratezza economica, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo, grazie al motu proprio di Francesco III di Lorena che liberalizzava la produzione e il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano, per secoli monopolizzati dall’Arte della lana fiorentina.
Nel giro di qualche decennio, l’esercizio dell’arte della lana cominciò ad innovarsi, trasformandosi da artigianale a più moderna attività imprenditoriale, per merito in particolare della famiglia Ricci, che acquisì e riorganizzò vari opifici preesistenti tra loro vicini, e dei fratelli Beni.
Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive, come avveniva già da diversi decenni nei paesi europei più evoluti.
La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia, oltre alla Mazzoni di Prato, furono i primi lanifici toscani ad introdurre le macchine, importate dall’estero. Questo valse loro la visita del granduca Leopoldo II nel 1838, mentre la qualità dei loro prodotti fece meritare una medaglia d’oro alla Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano.
Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia.
Nei primi anni 60, grazie all’apporto di capitale da parte di altri soci, il lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici vicini ma staccati. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti.
All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.
Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.
Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867.

Con i figli di Adamo il lanificio fallì e cessò la conduzione, durata più di un secolo, della famiglia Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 da una società costituita dai principali creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi di proprietà della famiglia Lombard.

A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come “maestro” il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi.
Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani.
Fece realizzare un condotto, scavato nella collina, per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio.
Sotto la sua direzione il complesso edilizio del lanificio raggiunse la configurazione attuale.
Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918, quando il lanificio era all’apice del suo prestigio: fornitore ufficiale di Casa Savoia e al più alto livello di occupazione, con 500 operai, circa 136 telai e una produzione di oltre 700.000 metri di stoffa.

Nel periodo fra le due guerre il lanificio di Stia resse la concorrenza, ma, dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli, nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export che, nel 1985, fallì.
Nonostante i tentativi di ripresa, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il lanificio non riuscì a ripartire con l’attività e venne definitivamente chiuso nel 2000.


Galleria foto storiche

Gran parte del lanificio è stato ristrutturato e destinato ad ospitare un museo permanente sul panno casentinese e la sua lavorazione. All’interno fanno bella mostra di se molti dei macchinari che vediamo nelle foto storiche, perfettamente restaurati.

Di seguito, una veduta dell’entrata del museo:

Stia ingresso

Stia ingresso

In un’altra ala, sono presenti spazi espositivi, destinati ad ospitare mostre di vario genere.

Alcuni locali, siti al piano terra, sono adibiti a negozi. Qui si vendono manufatti confezionati con il famoso panno casentinese.

Un’altra ala rimane, ad oggi, ancora in attesa di essere ristrutturata. Di seguito la situazione di questi locali ad agosto 2015:


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